Saturday 12 January 2013

Innamorato dell’Islam, credente in Gesù


Innamorato dell'Islam, credente in Gesù. Dell'islamofilia libro di Dall'Oglio PaoloLeggere le riflessioni di p. Paolo Dall’Oglio, sacerdote gesuita ri-fondatore del monastero siriaco di Mar Musa in Siria, è stato aprire le finestre dello spirito e della mente e sentire aria nuova, fresca. Parla di dialogo fra Cristianesimo e Islam, e lo fa trovando strade nuove. La sua riflessione è tanto più interessante e convincente per il fatto di essere vissuta, nell’esperienza monastica della sua comunità di Mar Musa. Scrivo qualche nota, per non dimenticare.


Il dialogo parte dall’amore

Paolo Dall’Oglio è conosciuto per espressioni che sono tanto ardite quanto profonde. “Chiesa dell’Islam” e “doppia appartenenza” sono forse due fra le categorie centrali del suo pensiero teologico. È interessante scoprire che non rivendica la paternità di queste espressioni, ma che si inserisce in un cammino che fu intrapreso prima di lui dal Beato Charles De Focault, da Luis Massignon, da dom Christian De Cherge, e da molti altri.
Il dialogo nasce dall’amore e conduce all’amore. O il dialogo parte dall’apprezzamento dell’esperienza altrui – senza complessi di superiorità nè esigenze apologetiche – oppure invece di dialogo stiamo facendo un dibattito, il più delle volte per vedere chi ha ragione (pp. 58,137-138). Schiavi di un’idea (superata o da superare?) di ortodossia per cui o ho ragione io, o hai ragione tu, giudichiamo la storia del genere umano “a partire da un’idea di rivelazione ancora molto letterale, molto rigida, un po’ meccanica, magica e ingenua di un dio nascosto che fa cucù. Ne scarturisce la caricatura di un Dio che si diverte ad ingannarci con religioni false e a lasciare l’unica vera religione sotto il peso di una serie storica di contraddizioni feroci e sanguinarie” (p. 153).
Amare l’Islam significa anche avere l’onestà – di fronte a Dio e a noi stessi – di riconoscere a questa grande religione una dignità teologica, un posto nel disegno di Dio. Probabilmente il ruolo di richiamare il Cristianesimo ad un’auto-critica, il compito (ingrato) di ricordare al cristianesimo calcedonese che non può vantare assolutismo e universalità, se con queste si intende un senso di superiorità e di orgoglio. Come scrive bene Paolo Branca nella postfazione, Cristo non conobbe momento più glorioso che quando scelse di lavare i piedi. Come ci ricordava Martini, anche Ismaele è erede delle benedizioni abramitiche, e la storia-destino di questo popolo (la umma) è legata alla nostra.

Al di là del sigillo: il trampolino

Uno dei cardini della teologia di Innamorato dell’Islam, credente in Gesù è la riflessione sulla profezia di Maometto e il concetto di rivelazione. Dall’Oglio ci invita ad andare al di là dell’idea del sigillo della profezia, per la quale dopo Gesù non ci sarebbe più nient’altro da dire. Gesù non è il punto d’arrivo, ma un punto di partenza. Un trampolino. Quest’idea mi piace molto, perchè è molto girardiana: Gesù incarnato, crocifisso e risorto è il perno attorno al quale gira l’intera storia del genere umano, il momento culminante (la pienezza dei tempi), promessa e compimento al tempo stesso. Dall’Oglio colpisce per la sua straordinaria capacità di apririsi al diverso, senza paura (anzi, con coraggio), non perdendo neppure per un istante una fondazione (anzi una consacrazione) di tutto il suo essere e credere a Cristo, e questi crocifisso.

Due punti di domanda e una curiosità

Innamorato dell’Islam, credente in Gesù è un invito a non aver paura del pluralismo. Anzi, è un elogio alla pluralità quale segno di vitalità e fecondità (in piena linea con la direzione indicata dal Concilio). È quindi naturale che sul suo scritto ci siano – e ci saranno – opinioni diverse.
Personalmente, trovo il suo libro una miniera di idee “nuove”, prima fra tutte l’idea della dignità teologica e della vocazione escatologica dell’Islam (quest’idea è nuova per me, ma a leggere il libro mi pare di capire che non lo fosse per Massignon). Ma ci sono due punti che non mi convincono, entrambi per il loro essere “vecchi”.
Dal punto di vista teologico, il suo modo di interpretare Muhammad mi ricorda la cristologia bultmanniana, quella che sosteneva non ci interessa il Gesù storico, ci basta il Cristo della fede. Analogamente, Dall’Oglio scarta il Muhammad storia e sceglie di seguire il Muhammad della fede (pp. 105-108). Questo non mi pare accettabile. Lo so che è dura conciliare i due, e credo che questo sia il vero dramma nelle coscenze di milioni di mussulmani. Ma scegliere di separare i due Muhammad e di prendere la via del Muhammad della fede mi sembra una scorciatoia sbagliata. Meglio impantanarsi nel dilemma – per ora latente, ma che giorno dopo giorno si avvicina ad emergere – di come conciliare i due. Forse l’Islam vive con trepidazione e paura la sintesi fra i due, e forse proprio in questa tensione dobbiamo inserirci anche noi cristiani.
Dal punto di vista della fenomenologia delle religioni, mi colpisce il suo riferirsi al New Age come ad un movimento con un nome ed un volto. Il fatto stesso di tirare in ballo il New Age è una cosa che non sentivo da tempo. Anche il giudizio sulla globalizzazione e sulla secolarizzazione – ovvero il considerarle come dei processi di imperialismo culturale da parte della “cultura occidentale” sul resto del mondo – mi suona vecchio. Credo che invece una riflessione teologica più girardiana offra un giudizio meno bigotto sulla secolarizzazione, che a mio parere rimane un processo intrinsicamente a-culturale e a-culturalizzante. E fondamentalmente positivo.
Dal punto di vista pastorale, mi rimane un dubbio – enorme – su come p. Paolo riesca a tradurre questo pensiero in prassi ordinaria per dei cristiani socio-economicamente poveri. Come missionario che si appresta – in sha Allah – a lavorare in Sudan, mi chiedo se e come poter tradurre questa riflessione in ortoprassi per l’uomo della strada.

Grazie

Indubbiamente mi sento molto arricchito dall’incontro con la riflessione di p. Paolo. Riprendo il mio cammino di missionario in Medio Oriente con una rinnovata voglia di entrare in dialogo, con amore vero per i mussulmani e la sincerità del loro credere. Mi impegno a coltivare l’atteggiamento della curiosità e a custodire l’impegno del rispetto. “Avremo l’Islam che avremo saputo sperare!”
In secondo luogo, mi edifica e mi sprona a ripartire con cuore nuovo il senso di gratitudine e stima che p. Paolo esprime per i Cristiani del Medio Oriente, sia per la loro fedeltà a Cristo che per la loro capacità e fecondità spirituale, che sono testimoniate dal loro essere Chiesa plurale.
L’incontro/dialogo con l’Islam ci chiama ad essere cristiani migliori (p. 123). Ringraziamo Dio di questa chiamata, e accogliamola con gioia!