Tuesday 1 March 2016

Gesù entra nel portafoglio e... (Lc 16)

(Ormegiovani, marzo 2016)


Quando un paio di mesi fa ho letto la notizia del report dell’OxfamUn’economia per l’1%”, non so se ha prevalso in me la rabbia, o l’indignazione, o la vergogna di appartenere a questa generazione. Il report sostiene che i 62 più ricchi del pianeta hanno tanto quanto il 50% povero della popolazione mondiale. Interessante che la famosa “crisi” non abbia diminuito, ma anzi aumentato, le finanze dei super-ricchi: per la maggior parte di persone nel pianeta la crisi è stata reale, mentre per qualcuno è stata un tempo di crescita. Lo stesso report suggerisce che una delle cose da cambiare sia la presenza dei paradisi fiscali, dove si nascondono 7,6 trigliardi di dollari. Il sistema sembra non solo “tollerare” gli esentasse e i conti che... non tornano, ma addirittura facilitarli. È un sistema di esclusione, dove chi sta in cima alla piramide economica non si interessa minimamente degli altri. A margine del report, Oxfam ha anche denunciato che l’1% più ricco è già arrivato a possedere tanto quanto il rimanente 99%. Non solo: questo dato assurdo è stato raggiunto già nel 2015, con un anno di anticipo rispetto alle previsioni. Viene da chiedersi se dopo questo dato ci siano altri record dell’inequalità da battere...

Questi dati sono difficili da descrivere. Non credo esista una parola che esprima la stupidità con cui le generazioni future vorranno condannare questo mondo in cui viviamo. Ci gloriamo di essere un mondo dove la democrazia e la conoscenza stiano avanzando, anche se a fatica. Ma siamo la prima civiltà liberale che abbia silenziosamente accettato un’economia che ricorda tanto i feudalismi e le oligarchie più ingiuste che la storia abbia conosciuto. In altre parole, se rispetto ai Sumeri e agli antichi Egizi abbiamo aumentato la rappresentatività di chi governa, dal punto di vista di distribuzione della ricchezza non abbiamo migliorato molto, anzi, forse abbiamo anche aumentato il divario. Altro che progresso umano!

A che serve vantarsi di essere arrivati all’egualianza dei diritti civili fra uomini e donne o fra bianchi e neri, quando l’ugualianza è solo fra i poveri e le persone che subiscono le decisioni di chi davvero conta? Ed è davvero democrazia, quella in cui vive l’Occidente, dove la scelta del presidente della nazione più ricca è dettata dalle sue capacità finanziarie? (Per inciso, un giorno gli Stati Uniti dovranno pur accorgersi che quello che loro chiamano lobbying in altri paesi si chiama corruzione...)

La mente corre alla trilogia fantascientifica di Suzanne Collins, The Hunger Games, che descrive una futura società post-apocalittica in cui la popolazione della ricca capitale organizza annualmente dei “giochi della fame” (da cui il titolo), un reality show in cui i partecipanti dei distretti poveri e rurali si ammazzano finchè non ne soppravvive solo uno. A leggere la serie, uno dovrebbe pensare che queste cose succedono solo nella fantascienza, e in quella tendente al pessimismo. Invece – nel mondo in cui viviamo – sembra che la realtà stia correndo in quella direzione.


Uno potrebbe porsi il problema “Ma io, sono fra i ricchi o fra i poveri?”. Moralmente, caro lettore, ci consola il fatto che nè chi sta scrivendo ne chi sta leggendo questo articolo facciano parte del’1%. Questo ci da l’autorizzazione a dire che la colpa è di qualcun altro. Ma dal punto di vista esistenziale, invece, il vero problema è che a entrambi noi due piacerebbe fare la vita dei nababbi, la “vita spericolata, di quelle che non dormi mai”. Consciamente o meno, siamo tutti ipnotizzati dallo stile di vita dei ricconi. Prova ne è il fatto che ci siamo abituati a non scandalizzarci che i budget di squadre di calcio superino quelli di governi africani. O che le rose di San Valentino vengano coltivate in Kenya e trasportate per via aerea. Non ci scomoda il fatto che la maggior parte del mondo viva già oggi la realtà degli Hunger Games. Gli esistenzialisti dicevano che “la morte è sempre la morte dell’altro”. Altrettanto per la fame: è sempre ‘la fame degli altri’ e finchè non tocca a me, ne posso parlare con un certo distacco. La generazione prima di noi, quella industriale, aveva già perso il senso della misura; ma la nostra ha perso il senso della vergogna.

Gesù nel portafoglio

Se proprio ci accorgiamo di quanto le cose non siano a posto, e se proprio ce ne sentiamo almeno un po’ in colpa, una delle cose che ci viene spontaneo fare è cercare di metterci la coscienza in pace. Apriamo il portafoglio, vediamo cosa c’è dentro, e diamo qualcosa ai poveri. Non dico che sia sbagliato, anzi: la Parola di Dio dice chiaramente che l’elemosina è un dono fatto a Dio stesso, e ci aiuta a ‘purificarci’ dai peccati. Infatti, liberarsi di qualcosa di materiale è sempre e comunque un gesto di libertà. Ma ben altra cosa è fare la carità con l’intenzione di sentirci buoni, ben altra cosa è vivere la carità. Una cosa è aprire il portafoglio, un’altra è aprire il cuore. Dare qualche soldo fa del bene, ma forse non mi trasforma tanto quanto prendermi del tempo per fare del bene, per accogliere, per incontrare.

Il vangelo di Luca torna spesso sull’uso dei beni. Il capitolo 16 si apre e si chiude con due parabole che per certi versi sembrano controbilanciarsi. All’inizio del capitolo troviamo la parabola di un cattivo amministratore che sperpera i beni del suo padrone per ingraziarsi qualche debitore prima di perdere il posto di lavoro. È una persona disonesta, e anche opportunista, ma se non altro è uno furbo e Gesù non manca di far notare che i figli di questo mondo – un’espressione per dire ‘i mondani’ – sono più scaltri e furbi degli uomini di religione, che invece a volte si fanno sopraffare dagli eventi. Alla fine del capitolo, invece, troviamo un’altra parabola in cui si parla di un riccone avaro e freddo che finisce all’inferno, da dove si accorge che il mendicante che stava davanti al portone di casa sua è beato in paradiso. Fra i dettagli interessanti di quest’ultima parabola c’è che il riccone muore senza che ci venga detto il suo nome, mentre del povero sappiamo che si chiama Lazzaro. Chi vive da solo muore da solo, senza che nessuno pronunci il suo nome, senza amici. Muore che è già morto da tempo, nel senso che la morte esistenziale lo coglie ben prima di quella biologica. Invece il povero, che almeno aveva qualche cane per amico, muore da vivo, e vive oltre la morte.

Di fronte ad una parabola come questa viene da chiedersi chi sia davvero ricco e chi sia povero. Economicamente, la ricchezza è presto intuibile dai vestiti che uno porta, dal modo in cui cammina e da come parla. Ma anche la ricchezza spirituale ha i suoi segni particolari: il sorriso, la serenità, la fiducia in Dio. Non mi capita di rado – qui in Sudan – di incontrare persone che vivono una vita dura: senza lavoro fisso, mangiando un pasto e mezzo al giorno, senza assicurazioni mediche e senza la capacità di leggere e conoscere il mondo come ho io. Da molti punti di vista la vita in cui si trovano è una vita che a me fa paura, che non desidererei. Eppure capita di trovare persone con una pace interiore e una serena confidenza in Dio che sinceramente mi disarmano. A me missionario non manca nulla: un tetto, tre pasti al giorno, acqua, corrente, medicine, macchina, telefono, ecc. Ma quanto avanti a me sono le mamme della nostra comunità cristiana, che si spaccano la schiena per mantenere i figli (magari anche da sole, se il marito non c’è più) e quando vengono in Chiesa fanno tremare le mura con i loro canti di gioia! Sono loro le testimoni della buona novella. Io al massimo faccio l’assistente. E piano piano mi lascio convincere dal loro stile di vita che Gesù non abita nel portafoglio, ma nel cuore: nelle relazioni, negli incontri fatti di volti, nomi, storie, esperienze condivise. Spero proprio che questa quaresima sia un tempo in cui non apriamo solo il portafoglio, ma anche il cuore. Cominciando da quella persona che mendica davanti al portone della nostra indifferenza.


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