Saturday 2 May 2020

Missione: e dopo il Covid19?


(Nigrizia di maggio)

Abbiamo tutti seguito i primi atti di questa pandemia con una certa indifferenza, se non addirittura con cinismo. Finchè la pandemia era in un angolo di Cina, ci potevamo premettere il lusso di credere che fosse lontana. Ma i voli da Pechino a Malpensa sono frequenti e veloci, e prima ancora che ce ne accorgessimo il virus è arrivato lì da voi in Italia e in Europa. E ha cominciato a colpire senza pietà.
Inutile per me fare la cronistoria della quarantena, dapprima cominciata con i congiuntivi, e poi via via impostasi con forza. Per me comboniano a Khartoum, invece, è interessante vedere come la gente qui quotidianamente mi chieda come stia “la mia gente” in Italia. In arabo sudanese ahal “la gente” di qualcuno è la sua famiglia. I mali che accadono nel mio Paese lontano mi riguardano come mali che accadono alla mia famiglia. Già questo per me è essere “casa comune”, come papa Francesco ama chiamare il mondo.
Impossibile fare previsioni su come la pandemia si evolverà. Qui in Sudan ad oggi conosciamo di “solo” 14 casi ufficiali, eppure il governo sta già prendendo misure forti. Prima che morisse la prima vittima, il primo passo è stato chiudere areoporti e confini di mare e di terra. Il primo passo! Nei paesi che non hanno ancora “imparato” la democrazia occidentale, le misure sono state comparativamente più drastiche e in tempi più utili. Speriamo serva. Anzi, speriamo basti, perchè qui in Africa la prevenzione sembra essere non solo la prima difesa, ma anche l’unica.
La virus è democratico nel senso che colpisce tutti senza distinguere nazionalità, età, colore e genere. Ma la pandemia sta mettendo alla luce il forte divario fra una società post-industriale che si può permettere settimane di quarantena ed un sud del mondo sempre rimasto pre-industriale dove la gente lavora soprattutto a giornata, sia nelle zone rurali come anche in quelle urbane. Da queste parti, l’idea di uno shut down completo per due o tre settimane sta spaventando la gente più del virus stesso. Non si sa se temere di più l’epidemia in quanto tale, o i suoi effetti collaterali in campo economico. Il famoso proverbio messicano dice che quando gli Stati Uniti starnutiscono il Messico prende la polmonite... il problema oggi è: cosa succede al mondo quando sono gli Stati Uniti ad avere il febbrone?

Un giorno i nostri nipotini studieranno la pagina di storia in cui si parla dell’epidemia del corona. Avranno alla mano il numero delle vittime, ma anche un elenco di cose che saranno cambiate. Forse impareranno che avremo cambiato il modo di salutarci (proveranno imbarazzo al pensiero che fino al 2020 ci davamo la mano), ma ben altro. Sarà cambiata l’educazione; mentre finora l’uso dell’online sembrava una fisima degli addetti ai lavori, da ora in poi passerà non solo come possibile, ma come auspicabile. E in quest’ottica, la bancarotta di metà campus universitari nel nord del mondo è stata accellerata di almeno 10 o 15 anni. Sarà cambiato il modo di lavorare, di viaggiare, di impostare la casa e il tempo in famiglia. E – in un modo che non sappiamo ancora immaginare – sarà cambiata la Chiesa.

La Chiesa qui in Africa ha risposto in modi diversi allo sviluppo della pandemia. Fra le scelte più sofferte, come del resto nelle diocesi di ogni latitudine, la scelta di sospendere le messe e le attività in generale: scuole, catechesi, servizi sociali, incontri, attività di ogni tipo. Alcune conferenze episcopali, come quella dello Zambia, hanno preso questa scelta prima ancora che si parlasse di casi nei loro Paesi. Altre, come il Kenya o il Sud Sudan, hanno preso la decisione di rimbalzo alle decisioni delle autorità civili, quando ormai si era capito che la cosa non era un problema “solo europeo” più di quanto non fosse già stato “solo cinese”. Qui in Sudan pure siamo arrivati a questa dolorosa scelta – tanto più sofferta per il fatto che si è imposta nei giorni precedenti a Pasqua.
Al di là del giudizio su queste misure drastiche (non perchè sia troppo presto, ma perchè non è neppure giusto usare il metro del giusto e dello sbagliato in momenti di tanta confusione), fa riflettere quello che queste scelte ha messo in luce della Chiesa in Africa.

Innanzitutto, è venuto alla luce un divario fra la fede semplice della gente locale che dice “dobbiamo invece pregare insieme di più, perchè la preghiera ci salva” e il linguaggio dei missionari che invitano a sospendere le messe per ridurre il rischio di contagio. Si è come verificato un dialogo fra sordi. Se prendiamo per buono il modello di fede “trasmessa” dai missionari ai locali (e magari è qua che mi sbaglio), allora vien da chiedersi di cosa si stia parlando. Mentre i missionari fanno i loro distinguo fra fede e medicina, buona parte della gente si aspetta che la pratica religiosa funzioni da scudo. Non è solo una questione di alfabetizzazione, ma di forma fidei. Nella stragrande maggioranza delle religioni tradizionali africane, fede e guarigione non sono neppure due cose distinte. La pandemia del Covid 19 rischia di presentare la fede cristiana come una fede senza guarigione... o una fede astratta. Qualcuno citerà san Paolo che dice dei Giudei che chiedono segni e dei Greci che chiedono sapienza. Altre civiltà chiedono guarigione. E noi, come rispondiamo? La guarigione non è solo il pallino del Milingo di turno. Che risposta dà il vangelo alla sete africana di guarigione? Come riconciliare la ritirata fra le mura domestiche con l’assioma di Tertulliano caro salutis cardo (la carne è il perno della salvezza), per cui la centralità dei sacramenti poggia sulla loro corporeità e non è data Chiesa lì dove non ci sia comunione fisica fra persone?   

In secondo luogo, viene detto alla gente di pregare “in casa”. Anche qui, lasciamo ai posteri l’ardua sentenza di valutare le conseguenze di questo cambio di paradigma. Ma ci è possibile pensare a degli scenari. Fra i tanti, la possibilità che questa misura produca una spinta al movimento del disinteressamento, che – nonostante la letteratura romantica di alcuni missionari ancora ferma all’Africa delle savane – è già presente nelle città africane da diversi anni. Con l’urbanizzazione e la fine del modello villaggio/parrocchia, si è innestato nelle giovani generazioni urbane africane un bel po’ di distacco dalla pratica religiosa. Che sia ora di metterci in discussione?
Un altro scenario, che non necessariamente esclude il precedente ma casomai lo completa, è la possibilità che rafforzando la vita di preghiera in casa si venga a sgonfiare la piramidalità della Chiesa istituzionale – che pure è un altro white elefant della letteratura missionaria, che da sempre parla dell’Africano-uomo-di-comunione, e quasi mai affronta il problema dei vescovi africani che si atteggiano da capotribù. In più, nella fretta di trovare piattaforme social per far arrivare ai fedeli le messe, il rosario e la catechesi, si è ben capito che qui in Africa più che altrove il laicato urbano e i sacerdoti non sono certo sulla stessa pagina. Per dirlo in soldoni, mentre i giovani africani tengono il passo della rivoluzione mediatica, il clero locale si muove ancora con canali e ritmi vecchi di quarant’anni. Anche qui, il divario fra la Chiesa Cattolica e altre denominazioni pone alla prima non poche sfide. Nell’età del “comunico ergo sum” la Chiesa non deve chiedersi “a quanti” sia capace di comunicare, ma “cosa” stia loro comunicando.

La società africana ha fatto molti frog leap – “salti di rana”, ovvero salti qualitativi senza i passi intermedi che ci sono stati altrove – in molti ambiti: lo abbiamo visto nel campo telecomunicativo, sociale, politico, economico. Viene da chiedersi che salto verrà fatto nella Chiesa e nella missione una volta che questa pandemia sia passata. Viene da chiedersi se laici e consacrati faranno questo salto insieme, o se i primi lasceranno indietro i secondi.
Papa Francesco poche settimane prima della pandemia aveva indetto per il 2022 un sinodo sulla sinodalità della Chiesa. Chissà come questa stessa parola avrà un significato diverso dopo che avremo passato questo tunnel. Come ci siederemo al tavolo con gli africani rurali che abbiamo scandalizzato nel momento dell’epidemia, e con gli africani urbani ai quali abbiamo lasciato intendere che la messa in streaming è pur sempre messa?

In una forma o nell’altra, il Covid19 rappresenta un momento di smarrimento, simile all’esilio del popolo di Dio nella terra senza tempio, senza altare, senza offerta. Paradossale, che il chiudersi in casa sia esilio. Ma la storia della missione, in Corea come sui monti Nuba o in Amazzonia, ci insegna che la fede non muore con l’assenza fisica dei preti. Certo ci sarà una potatura, non solo numerica (ahimè dolorosa), ma qualitativa. Potatura di tante idee di grandezza, della confidenza nella nostra forza, nei nostri numeri e nei nostri modelli vecchi. Potatura come la Pasqua: morte e vita nuova.


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