Comboni morì
alle 10 di sera del 10 ottobre del 1881. Le 10 del 10 del 10. Questa
“coincidenza” numerica mi ha sempre fatto pensare a quel “tutto è compiuto” del
Signore sulla Croce. Ma a pensarci bene, cosa si compì sulla Croce? Cosa si
compì con la morte di Comboni? Tradimento, solitudie, sofferenza non sono certo
gli ingredienti della vittoria, non per noi che abbiamo un modo holliwoodiano
di intendere il successo. Qual’è il lieto fine?
La morte del
Signore, e la morte di chi ha consumato la vita per il Regno, ci ricordano che
la missione non è misurata con i nostri canoni di successo. Abbiamo la tendenza
a intepretare la missione come un enorme partita a Risiko della salvezza. Ma la
missione della Chiesa non è un impero la cui superficie si
estende per chilometri, quanto invece il segno (pieno di contraddizioni) di un regno
che è chiamato ad andare in profondità. Pensiamo alla Chiesa con
categorie esteriori, forse perchè siamo ancora – tacitamente – dell’idea che la
fede sia una questione di belle parole e numeri, mentre invece è una questione
di silenzio e piccoli gesti inosservati.
San Paolo lo
dice bene nelle sue lettere: il vangelo si estende nel mondo nella misura in
cui mette radici sempre più profonde nei nostri cuori. “Il missionario – mi
disse tante volte il mio padre maestro in noviziato – è responsabile della
salvezza di un’unica anima: la sua”.
Missione è
accettare la persecuzione (tenere lontano dalla portata dei bambini!!)
In un mondo
dove la violenza e il desiderio di imporsi sono l’unica costante (... e la
violenza gratuita è quello che ci distingue dagli scimpanzè, insomma l’unica
cosa che ci portiamo dietro dai tempi dell’austrolopitecus... e poi dicono che
il peccato originale è una favola per bambini...), siamo chiamati ad uscire
dalla logica della violenza. Come? Senza vendicarci. E qui la cosa si fa dura.
Proprio in queste ore l’Egitto ricorda la strage del Masbiro, dove un anno fa diversi
cristiani furono uccisi in modo stupido, per una rabbia fomentata
dall’ignoranza e dalla confusione. Come tacere? Come sopportare? Come non
scappare?
Nella sua
lettera al Medio Oriente, il papa parla di Gesù come “l’unica porta”. Non c’è
altra porta al futuro se non la scelta della non violenza. La scelta di imitare
il maestro che ha accettato di farsi inchiodare in croce. Il maestro che
davanti ai potenti si prende il lusso – l’autorità/potere – di non parlare. Mi
vengono in mente le parole, pesanti come il sangue, di Pietro, nella sua prima
lettera (cap.3):
E chi potrà nuocerci se voi
sarete ferventi nel bene?
Ma se anche dovete soffrire a causa
della giustizia, beati voi!
Non vi fate prendere dal timore che
vogliono incutere costoro; non vi turbate,
ma santificate Cristo Signore nei
vostri cuori,
pronti sempre a dare una risposta a
chi vi chiede il motivo della vostra speranza,
con mitezza e rispetto, con una
coscienza retta,
in modo che coloro che vi calunniano
abbiano a vergognarsi di ciò che
dicono sparlando di voi,
a causa della vostra condotta
intemerata in unione con Cristo.
Accettare di
essere figli della nostra storia
Insomma, il
cammino che siamo chiamati a fare, è tornare ad essere bambini. Lasciare che
quel falso nostro “essere uomini”, modellato appunto sulla logica della
violenza e della sete di successo e di potere, sia fatto a pezzi. E forse
scoprire – per la prima volta – che in realtà non eravamo mai stati adulti, ma
semplicemente bambinoni che credevano di essere cresciuti, ma che in realtà
avevano continuato a fare i frignoni...
È un cammino
difficile, quello di riconoscere che siamo figli della nostra storia, fatta di
successi e di fallimenti, abbruttita dai ricordi ammuffiti e pieni di ragnatele
dei nostri entusiasmi e buoni propositi, e invece arricchita dalla fantasia del
Signore, che fa nuove tutte le cose, e che ha la mania di non stancarci mai con
l’imprevisto, con le sue meraviglie.
Buon cammino
a tutti. E buona festa della Missione.