Monday 16 January 2012

lettera di p Cristian Carlassare

Il Signore ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio Gesù.
SAN PAOLO IN ROMANI 8,29


Juba, 15 Gennaio 2012

Carissimi amici

Da pochi giorni sono arrivato a Juba per alcuni incontri. Sono contento dunque di riprendere i contatti con tutti voi. La mia vita missionaria prosegue bene con tante gioie e sfide che vengono dal Signore e ci fanno camminare nella fede e nella carità vera. Durante l’anno scorso la comunità comboniana di Fangak ha vissuto dei grossi cambiamenti: padre Wellington è stato chiamato per un servizio in Brasile e fratel Raniero è partito per l’Italia. Padre Antonio continua la sua presenza missionaria contemplativa ad Ayod, a circa 100 Km di distanza da Fangak. E io mi trovo a Fangak pronto ad accogliere i nuovi confratelli che verranno a formare la nuova comunità. È notizia fresca che padre Gregor, un comboniano trentottenne di Berlino sarà con me a Fangak da Febbraio. Oltre a lui ci è stato affidato un seminarista perchè lo accompagniamo negli ultimi due anni di esperienza pastorale prima dell’ordinazione sacerdotale. Sono contento e sereno ma anche cosciente della grossa responsabilità che mi viene data nel dare forma alla nuova comunità.
Il 2011 è stato un anno molto intenso sia nelle attività della parrocchia che nella vita civile della nostra nazione. Il 9 Luglio c’è stata la proclamazione dell’Indipendenza del Sud Sudan. Il Sud Sudan è diventato una nazione dopo tanti anni di conflitto marcati da passi in avanti ma anche clamorose sconfitte, tradimenti, disaccordi e divisioni. L’indipendenza è stata dunque una grande conquista di civiltà, tappa raggiunta grazie all’accordo di pace firmato il 9 Gennaio del 2005.
Abbiamo organizzato una serie di iniziative alle quali la popolazione ha partecipato con grande convinzione. Abbiamo dato inizio alle celebrazioni proponendo la pulizia di Fangak per stimolare la gente a prendersi cura del proprio paese. Poi abbiamo celebrato la messa di mezzanotte cominciando la celebrazione intorno alla bandiera cantando l’inno della nuova nazione. E’ stato come se celebrassimo il Natale con la nascita del Bambino Sud Sudan. Al mattino del 10 Luglio la gente è venuta per un altro momento di preghiera dove abbiamo piantato tre manghi a simboleggiare il motto del Sud Sudan: Giustizia, libertà e prosperità. Ciascun mango ha preso il nome in Nuer di uno di questi tre ideali che vanno a fondare il nuovo paese: Cuong, Bang e Riang. Nella predica ho insistito sul fatto che i tre manghi per crescere hanno bisogno di cure: lavorare il terreno circostante, dare acqua e protezione dagli animali (vacche e capre); così anche il Sud Sudan ha bisogno di cittadini responsabili e autorità oneste e saggie. Per sigillare il momento è stato sgozzato un toretto secondo l’usanza Nuer, che sarebbe poi anche servito per il momento di convivialità del pomeriggio.
Nel pomeriggio abbiamo invitato le autorità locali, le due chiese presbiteriana ed evangelica, insegnanti e studenti, operatori sanitari e mercanti per un momento di condivisione non solo del cibo ma anche della memoria del passato. Abbiamo chiesto ad anziani ed adulti di raccontare alcuni avvenimenti significativi accaduti a Fangak. Alcuni interventi sono stati più azzeccati di altri, ma tutto sommato è stato un momento di riflessione e di crescita per tutti specie i giovani. E’ stato bello vedere come nei ricordi della gente padre Antonio era spesso presente accanto a loro anche nei momenti di paura e di pericolo.
Qualche giorno dopo la nostra celebrazione, ho sentito che il Consiglio dei ministri del governo ha indicato una serie di date significative che devono rimanere nella memoria dei Sudsudanesi. Per mia sorpresa queste date parlano di 191 anni di lotta per la libertà (1820-2011). Il governo ha voluto evidenziare che questa conquista viene da lontano, non solo dagli ultimi anni di guerra. Le tribù del Sud Sudan hanno dovuto prima di tutto lottare per sopravvivere e difendersi dallo schiavismo perpetrato dal Nord. Anche se lo schiavismo era stato proibito sulla carta era ancora praticato in Africa. Quando Daniele Comboni arrivò in Sudan si scontrò con questa realtà e cercò di improntare il proprio servizio apostolico con l’intento anche di rompere con questo meccanismo opprimente. Poi, le tribù del Sud hanno dovuto resistere al colonialismo dei bianchi imposto con la collaborazione di Turchi ed Egiziani. I Nuer sono passati alla storia per la loro recidività nell’accettare un governo straniero. Generalmente hanno assunto un atteggiamento di indifferenza verso le proposte delle autorità britanniche non accettando nessuna forma di sviluppo, scuola compresa. Ma in alcuni casi hanno organizzato ostruzionismo, sabotaggi e anche combattimenti. Rimane nella memoria di tutti l’uccisione da parte degli inglesi del condottiero Guek, figlio del profeta Ngundeng. È stato ucciso quasi per rappresaglia per spaventare e sottomettere i Nuer. Di questo periodo il governo ha voluto sottolineare alcune decisioni arbitrarie dell’amministrazione coloniale. Inizialmente il governo britannico aveva riconosciuto una certa diversità fra Nord e Sud tanto da impostare una amministrazione che avrebbe portato a una separazione. Inizialemente Sud Sudan e Nord Uganda erano sotto la stessa amministrazione. Ma avvicinandosi il tempo della fine del colonialismo, il governo britannico decise di unire il Sud Sudan al Nord. Alle richieste del Sud di un federalismo fece orecchie da mercante. Il Sudan arrivò all’indipendenza dal governo britannico nel Gennaio del 1956 con al Sud un ammutinamento cominciato nell’Agosto del 1955 che avrebbe dato vita alla prima guerra civile del Sudan chiamata Anyanya One. L’accordo di pace firmato ad Addis Abeba nel 1972 diede al Sudan un tempo di riposo, prima di ripartire con la seconda guerra civile che va dal 1983 al 2005. Due guerre civili che hanno interessato due generazioni se non tre, causato più di due milioni di morti e condannato la popolazione ad abbandonare le proprie terre e sfollare nei campi di rifugiati. Occorre anche essere onesti nel dire che il conflitto si è protratto così a lungo anche per le inimicizie e le divisioni tra le guide del Sud, cercando di perseguire gli interessi della propria tribù prima che del Sud Sudan. Questa sarà anche la grande sfida del Sud Sudan oggi. Quello che diceva Cavour per l’Italia vale anche per il Sud Sudan. Fatta la nazione occorre ora unire i Sudsudanesi come unico popolo, costellazione di diverse tribù ‘sorelle’. Lo slogan che la Conferenza Episcopale Sudanese ha scelto per l’occasione è proprio: Una nazione da ogni tribù, lingua e popolo.

A Settembre abbiamo avuto le consuete quattro settimane di corso per i catechisti e le guide della parrocchia. Quest’anno abbiamo dato ampio spazio all’educazione civica.
Abbiamo condiviso a proposito del Sud Sudan. soprattutto la storia che ha preceduto la nascita di questo paese africano. Un paese appena nato ma con molte aspettative. Se si è voltata pagina con il passato ora si vuole uno stato democratico, ma non a parole ma nella prassi. Durante la condivisione i catechisti hanno espresso tutta la loro frustrazione nel vedere quanto il governo locale sia incapace a rispondere ai bisogni della gente: i servizi fondamentali non sono offerti soddisfacentemente. Non sembra che la ragione di tanta lentezza sia la mancanza di fondi, ma la cattiva gestione di essi. Ci sono delle regioni del Sud Sudan dove lo sviluppo è evidente. È importante per la gente vedere questi segni di progresso perchè ha bisogno di guardare al futuro con ottimismo.
Nonostante tante ragioni per essere pessimisti, i catechisti di Fangak hanno condiviso tanta speranza in un futuro migliore. Stanno riponendo molte speranze nei giovani di Fangak che hanno avuto la possibilità di frequentare l’università e che ora sono all’estero o nelle grandi città. Quando loro saranno di ritorno saranno in grado di affrontare tutte queste problematiche con competenza. Sono rimasto molto ammirato dei catechisti che, nonostante non siano mai stati a scuola, hanno saputo identificare alcuni punti deboli della loro amministrazione. Hanno notato che il ‘commissioner’ (questore) è nominato dal governatore dello stato senza consultare la popolazione. Per questo accusano il presente commissioner di non rappresentare i propri cittadini, ma di curare solo gli interessi del governatore. Ovviamente il governatore si sceglie quelli che fanno parte della sua fazione e vuole l’appoggio di tutti i commissioner delle varie provincie. A lui conta che tutto sia in ordine e di poter mantenere il potere. Poi il commissioner, quando riceve il proprio salario e i vari soldi da destinare ai vari servizi, è molto bravo a far quadrare i conti e mostrare che tutto va bene. I cittadini si potrebbero servire dei capi locali incaricati dei villaggi per portare le loro istanze davanti al commissioner. Ma questi capi locali risultano non essere istruiti e, per di più, scelti tutti fra le fila dei sostenitori dell’SPLM. Questi semplici sono i primi a non essere in grado di alzare la voce contro l’autorità che dà loro da mangiare. Abbiamo concluso la condivisione con la domanda: cosa possiamo fare come chiesa in favore di una maggiore coscienza politica dei cittadini? I catechisti hanno suggerito cautela e tempo al tempo. Bisogna tenere presente che il governo è comunque ancora di tipo autoritario e militare: c’è bisogno di un lungo cammino perchè i valori democratici entrino a tutti i livelli.

Ad Ottobre abbiamo avuto la festa di Comboni celebrato da tutti i sudanesi come il padre della chiesa in Sudan. Abbiamo avuto il solito incontro dei giovani con tante attività. Quest’anno la celebrazione è diventata una festa ecumenica perchè anche i giovani delle altre chiese presbiteriana ed evangelica hanno voluto parteciparvi. È stato sorprendende e bello vedere quanto Comboni abbia la forza di unire tutti anche se appartenenti a chiese diverse.

A fine Ottobre sono stato impegnato nella costruzione della chiesa di Dhoreak. Questo era uno dei tanti lavori di fratel Raniero ma dopo la sua partenza ho dovuto prenderne la direzione. Ovviamente io non sono un lavoratore di esperienza come lui, ma con un pò di buon senso ho cercato di aiutare i cristiani a costruirsi la loro cappella tirandola su decentemente dritta. È stata per me una esperienza tutta nuova, dove al lavoro pastorale ho dovuto anche inserire il lavoro manuale. E devo dire che vi ho trovato anche tanta soddisfazione, perchè il lavoro è stato anche una occasione per fare pastorale. Lavoravamo tutta la mattinata. Quando il sole si faceva insopportabile ci ritiravamo sotto la pianta e di lì a poco arrivavano in raccolta i ragazzi per un pò di insegnamento che concludevamo con la messa. Dopo la messa ritornavamo al lavoro per gli ultimi ritocchi della giornata. Costruire la ‘chiesa di mattoni’ ci ha mostrato anche come costruire la ‘chiesa di persone’ collaborando tutti insieme per realizzare un progetto comune. La costruzione della chiesa ha sicuramente unito la comunità che in passato mi ha dato così tanti problemi e ora invece sembra diventare mia consolazione.

Da Novembre a Dicembre sono stato impegnato nelle visite ai centri e alle cappelle fuori Fangak. Quest’anno ho avuto la gioia di unire Stephen Ruot e Rebecca Nyatapa in matrimonio. È la prima coppia di sposi che ricevono il sacramento del matrimonio nei miei sei anni di lavoro nella parrocchia di Fangak. Avevano già completato il matrimonio tradizionale Nuer almeno quattro anni fa quando Stephen Ruot ha consegnato la dote al padre: ben 30 vacche. Oggi hanno già due bambini: Ecclesia CiengKuoth e Antonio Nyiduot. La loro relazione è stata abbastanza buona fin dall’inizio anche se hanno dovuto affrontare alcuni problemi abbastanza complessi e che, in alcuni momenti, hanno provocato qualche dubbio in Rebecca.
Stephen Ruot è un uomo di trentacinque anni. Undici anni fa era successo che suo zio era morto improvvisamente. Lo zio aveva varie mogli, fra cui anche Elizabeth Nyadak, una giovane ragazza ventiquattrenne che aveva già dato alla luce quattro figli. Iniziò una relazione fra Stephen ed Elizabeth approvata dalla gente del villaggio perchè lui desse ancora figli allo zio defunto. Ed è così che nacquero Samuel Gai e Teresa Nyantut. Quando io sono arrivato a Fangak ho incontrato anche Stephen ed Elizabeth e pensavo che questa fosse la loro famiglia. Ma ho poi scoperto che Elizabeth era vedova e che i figli non sono di chi li genera ma di chi ha dato la dote. Non c’era verso per Stephen di poter sposare Elizabeth perchè era moglie di un altro. C’è un proverbio Nuer che dice che se anche l’uomo viene sepolto è ancora il marito di sua moglie.
Quattro anni fa Stephen ha deciso quindi di pensare al proprio matrimonio e ha preso in moglie Rebecca. Nella sua fede ha deciso di lasciare Elizabeth per donarsi totalmente alla sua unica moglie. Ma era anche tenuto a continuare ad aiutarla economicamente. Rebecca purtroppo è sempre stata gelosa di questo e ha messo più volte in dubbio che Stephen abbia veramente lasciato Elizabeth. Avevamo finalmente fissato il loro matrimonio per il 18 Settembre, ma all’ultimo momento Rebecca disse di non sentirsi pronta. Arrivato il 24 Novembre nel loro villaggio Rebecca stessa è venuta a parlarmi a proposito del matrimonio. Abbiamo chiamato tutti gli interessati e abbiamo avuto un lungo incontro con tutti gli animatori del centro. Alla fine siamo arrivati alla conclusione di celebrare il matrimonio il 27 del mese, quando abbiamo visto che tutti gli ostacoli erano stati superati.
Durante la celebrazione c’è stata una grande partecipazione della gente e hanno vissuto il matrimonio come un momento sacro dove si invoca la grazia di Dio a benedire l’unione di Stephen e Rebecca. È stato molto commovente alla fine della messa ascoltare le parole di Elizabeth Nyadak. “Voi tutti sapete di quello che c’è stato tra me e Stephen. Non eravamo marito e moglie ma lui ha dato due altri figli a mio marito defunto. Lo ringrazio per quello che ha fatto e per il tempo che abbiamo vissuto insieme. Ma ora è arrivato il tempo per lui di avere sua moglie e di avere la sua famiglia. Io lo lascio libero da ogni dovere verso di me; che lui abbia la sua famiglia e se ne prenda cura, io ho la mia famiglia e i miei figli”.

Sono rientrato a Fangak il 18 Dicembre e il 19 è arrivata notizia che il comandante ribelle George Athor è stato ucciso. La versione ufficiale è che sia stato ucciso dall’SPLA in una località vicino al confine con l’Uganda. Si è detto che si trovava da quelle parti tentando di reclutare nel suo movimento ribelle anche giovani della regione dell’Equatoria. La gente ha accolto la notizia con grande maturità. “Athor era una grossa pietra d’inciampo per la pace e l’unità del Sud Sudan” molti mi hanno detto, “ma uccidere non è mai una soluzione. Morto lui i problemi rimangono. La sfida sarà invece come affrontare e risolvere i problemi”. Questa risposta mi ha sorpreso positivamente: io mi aspettavo che la gente celebrasse l’evento senza tanta riflessione.
Nei giorni precedenti il Natale abbiamo sentito di scontri fra i Nuer Lou e i Murle. Ad Aprile avevo avuto occasione di visitare i cristiani e i centri nella terra dei Lou e anche in quei giorni c’erano già varie tensioni fra i due gruppi. Verso metà anno, successivamente alla mia visista, c’è stato un ‘massacro’ perpetrato dai Murle alle spese dei Lou nella zona di Pieri verso metà anno. I Murle erano arrivati per rubare vacche, ma poi hanno ucciso molta gente e bruciato alcuni villaggi; è tipico anche dei Murle rapire bambini e crescerli come propri. Tanta violenza ha fatto nascere un grosso risentimento. Non sarà facile rimarginare le ferite: con la cultura della vendetta se ne aprono continuamente di nuove. Chiedo la vostra preghiera per questa mia gente. Sono certo che la Parola di Gesù possa insegnare alla gente a vivere in pace, lavorare per la giustizia e ad essere capaci di perdono.

Il 24 Dicembre i ragazzi hanno preparato il presepio. Hanno preparato tutte le statuine con la creta e poi le capanne di Betlemme. In verità le stalle erano molto più numerose delle capanne ed erano disposte in fila. Ad ogni stalla c’era una famiglia. E ogni famiglia aveva il proprio neonato proprio come Maria e Giuseppe avevano il proprio Gesù. Nella mia curiosità ho cercato di capire quale fosse la sacra famiglia, ma non riuscendo ad indentificare nessuna differenza fra una famiglia e l’altra ho chiesto loro che me lo indicassero. In realtà anche loro non avevano le idee chiare. Ogni famiglia era la sacra famiglia, tutti i bambini erano per loro Gesù. Quest’anno i ragazzi hanno inserito anche la presenza di Erode con il suo palazzo costruito con muri di mattoni e tetto in lamiere zincate. Se le famiglie del villaggio avevano molte vacche, capre e animali domestici; Erode aveva intorno animali feroci come la iena o il leone. C’erano anche i tre re magi in cammino verso Betlemme. Erode era alle loro spalle mentre Gesù presente in ogni bambino che li attendeva ancora un pò più avanti.
Nei giorni di Natale mi è capitata tra le mani questa preghiera di Sant’Agostino. Ve la mando con i miei più cari auguri di Buon Natale perchè questo appena passato sia come quello dei re magi: un Natale in cammino dove abbiamo lasciato tutto il male alle nostre spalle e ci dirigiamo a passo spedito verso il Signore della nostra vita.

Dio vuole che noi cantiamo alleluia
e lo cantiamo nella verità del cuore,
con la bocca e con la vita;
questo è l’alleluia gradito al Signore.
Oh felice alleluia del cielo!
Qui cantiamo alleluia,
ma lo cantiamo nell’affanno e nel travaglio,
lassù lo canteremo nella pace!
Qui lo cantiamo nella tentazione, nei pericoli,
nella lotta e nell’angoscia,
lassù lo canteremo nella sicurezza
e nella comunione vera.
Oh felice alleluia del cielo!
Canta come cantavano i viandanti:
canta e cammina!
Se cammini avanza nel bene,
avanza nella fede retta, avanza nella vita pura.
Senza smarrirti, senza indietreggiare,
senza fermarti. Canta e cammina!
SANT’AGOSTINO


Un forte abbraccio,
vostro padre Christian

Thursday 12 January 2012

forza bruta o forza bella?

Da meno di u mese insegno inglese nella prima e nella seconda classe della nostra Secondary school qui a Sakakini. L’altro giorno stavamo facendo un esercizio di vocabolario. Per ogni professione (muratore, studente, dottore, etc…) gli studenti dovevano fare una lista di attrezzi o cose che quel tipo di persona usa. Arrivati alla parola “insegnante”, se ne sono usciti con “penna rossa, lavagna, BACCHETTA”. La cosa mi ha impressionato.
È quantomeno vergognoso che nel XXI secolo ancora si picchino i minori. Che si usino le bacchette a scuola, proprio è una cosa che non mi va giù.
Vedo alcuni miei colleghi insegnanti girare per la scuola con la bacchette (con il direttore, però, stiamo lavorando perché questa cosa finisca). Ma mi chiedo: che autorità è quella di chi si impone con la forza della violenza, ma non riesce a trascinare con la forza dell’esempio? Infatti spesso e volentieri quegli stessi insegnanti che menano e fanno i duri sono gli stessi che non si preparano le lezioni e che non correggono i compiti per casa. Quale disciplina insegnano agli studenti? Non solo sono più temuti che amati (per via delle loro bacchette), ma sono disprezzati per il loro non essere impegnati. Altro che educazione: stiamo rovinando una generazione!
Sono troppo romantico se credo che un buon insegnante sia uno che trasmette passione per la conoscenza e per il lavoro assiduo? Sono troppo naive se credo che gli alunni devono vedere nell’insegnante un modello? Sono un sognatore ad occhi aperti se penso che quello che fece don Lorenzo Milani può essere ripetuto?