Thursday 27 December 2012

diventare uomo significa diventare bambino


(di Klaus Hemmerle)


Diventare uomo significa diventare bambino.
Da Adamo ed Eva non c'è
eccezione a questo.
Il cammino che porta ad essere uomo
passa attraverso il bambino.
E proprio questo è il cammino di Dio:
il Fglio di Dio se è fatto uomo,
diventando bambino.
Noi gli apparteniamo
se accogliamo i suoi amici, i bambini,
e se accogliamo lui stesso come bambini.


Solo chi diverrà come un bambino, 
entrerà nel Regno.
Diventare semplici, puri, 
condividere il dolore,
condividere la gioia.
Lasciarsi fare un dono 
e ricambiarlo.


Il bambino: virtù che salva
dalla rassegnazione e dal calcolo,
dall'egoismo e dalla mancanza di senso.
Il bambino ci chiede di poter vivere
di avere un suo spazio vitale.
Il Bambino nella mangiatoia
è colui che ci invita 
ad essere uomini con lui
e a ricevere da lui una vita divina.


Saturday 22 December 2012

FOMO, JOMO, NATALE

FOMO
Nell’era di Twitter e Facebook, l’incarnazione ha un gusto tutto particolare. In un mondo dove la realtà che conta è quella “virtuale”, diventa ancora più scandalosamente imbarazzante l’immagine di un DIO INCARNATO.
Viviamo attaccati a dei tubi – il telefono, la tv, l’internet – al punto che qualcuno sulla rete ha coniato il sentimento FOMO: Fear Of Missing Out, la paura di essermi perso qualcosa. Vivendo nell’illusione di essere presenti a tutto quello che succede nel mondo (ma quale mondo? Quello dei tabloid e della finanza? Il “primo mondo?" Il mondo "sviluppato" che se la fa e se la canta?), non riusciamo a staccare la spina dal continuo flusso di informazioni, e spegnere il cellulare è diventato per molti un gesto eroico, se non folle. Paura di spegnere quell’aggeggio invadente. Paura di stare da solo. Paura del silenzio. Paura della realtà vera.

JOMO
Qualcuno ha scoperto, invece, che nello staccarsi dai media si può aprire la porta al silenzio, o meglio, riusciamo ad essere “presenti” a quello che ci sta attorno – sto parlando fisicamente. Allora nasce quella pace interiore, quella serenità soprannominata JOMO: Joy Of Missing Out, la gioia di essermi perso qualcosa. Sì, sto bene ad essere presente ad una manciata di volti. La storia dei grandi e le storielle degli ignoranti possono attendere.
Il Natale è il mistero di un Dio che si è fatto carne. L’infinito si è posto dei limiti. Ha scelto un posto, della gente, una storia, un volto. Un Dio specifico. Un Dio così profondamente calato nella storia, che ancor oggi non riusciamo ad avere un’idea di cosa fosse il suo messaggio (un Messia ideologico sarebbe stato più facile da manipolare). Come i soldati sotto la croce che non tagliano la sua veste, così noi non siamo capaci di tagliare la sua identità a misura nostra.
Si è INCARNATO, si è fatto SPECIFICO, il nostro Salvatore. Ha preso la strada della povertà. Poteva salvarci con un tweet, con un colpo di bacchetta magica che – telematicamente – avrebbe raggiunto tutti. No. Ha preferito la lunga – e sudatissima – strada dell’essere limitato. Povero. Altro che Joy Of Missing Out, lui non si è proprio perso nulla!!
Siamo noi che ci perdiamo il presente!

ALTRO CHE JOMO!!
Natale vuol dire che Dio dice il suo “presente” a ciascuno di noi. In arabo, la parola “Haadir”, che vuol dire “Eccomi”, si usa per dire “sono a tuo servizio”. Il Natale non è altro che Dio che dice al dolore dell’uomo “Haadir, eccomi, ci sono”. Non per risolvere i problemi con la bacchetta magica, ma per camminare con voi – fosse anche nei bassifondi dell’ignoranza e dell’ingiustizia che stanno seguendo l’onda della Primavera Araba. Per camminare con voi nel freddo di una vita senza futuro e senza direzione. Basta che - come i pastori - stiate al gioco: alzatevi, e camminiamo!

Buon Natale a tutti!
Che sia un Natale, e un anno, in cui ci facciamo “presenti”,
almeno con il cuore, con gli orecchi e con le mani, alle persone che incontriamo.

Tuesday 11 December 2012

o potenti della terra

O potenti della terra
non temete che diciamo quel che pensiamo
temete piuttosto
che pensiamo


Oh, you great men of the earth
fear you not that we say what we think
fear rather
that we think

Sunday 2 December 2012

oceani di...

Uno passa la vita chiedendosi come sia mai possibile che regimi come il fascismo, il nazismo, o il comunismo storico si affermino in modi più o meno – come dire – non democratici, ma con un ampio appoggio popolare. Con il tacito appoggio dei potenti, e le grida di piazza degli ignoranti.

Personalmente, oggi arrivo alla risposta a questa domanda. E mi accorgo che il fastidio che mi dava questa domanda era preferibile all’orrore della risposta: l’infinità della stupidità.

Einstein ebbe a dire "Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo l'universo ho ancora dei dubbi." Non ci sono infatti ragioni per dubitare della sconfinatezza della stupidità dell’uomo. La stupidità - si sa - è l’oppio dei popoli, e forse l’unico vero motore della storia – se per storia intendiamo la serie di balle scritte dai potenti.

E mentre questi pensieri mi portano a quel punto dello sconforto dove neppure il turpiloquio serve a nulla, ecco - fresca come la rugiada - la Parola del Salmo 4:
Fino a quando, o uomini, la mia gloria sarà nuda?
Fino a quando amerete la vanità e desidererete la menzogna?

I padri della Chiesa insegnavano che la gloria di Dio è l’essere umano quando è pieno della vita. E la gloria di Dio è nuda, violentata, calpestata. Nelle donne e negli uomini che vengono presi in giro con la balla del dare sempre la colpa a qualcun altro – il capro espiatorio su cui sfogare la nostra bambinesca non accettazione di noi stessi. Nelle donne trattate come oggetti. Nei diritti delle minoranze calpestati. Nei giovani presi a sputi in faccia con la vecchia barzelletta del “siete il futuro”.

Che io sappia, il cane è l’unico animale che si mangia il proprio vomito. Credevo questo fosse il record dello schifo, ma mi sbagliavo. Peggio ancora è quando l’uomo sceglie la via che porta all’ignoranza, alla schiavitù – mentale prima e materiale poi. Se poi è un popolo... allora altro che i secchielli... oceani di stupidità, oceani di vomito!
Che rabbia!

Lo stesso salmo, poi, sembra parlare a me, che sono pieno di rabbia e darmi la buona notte:
Riflettete nei vostri cuori, ma non peccate;
adiratevi nei vostri giacigli, ma tacete;
offrite sacrifici di giustizia e abbiate fiducia nel Signore.
In pace, appena mi corico, m'addormento
poiché tu, o Signore, anche se solo, in sicurezza mi fai riposare.

Buona notte a tutti.
In attesa di svegliarci da questo incubo di stupidità.

Thursday 22 November 2012

"via della pace"



"Se anche tu avessi imparato la via della pace,
ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi"
(Luca 19,42)

Leggere - oggi - questa parola che il Maestro rivolge - in lacrime - alla città santa...
che strana impressione.

Via della pace.
La pace è la via. Non ce n'è un'altra. 
La violenza, l'odio, non portano da nessuna parte: 
sono l'anti-via, la non-via.
Solo la pace è "via"
è strada
è andare avanti.

Cammina, il Maestro,
ma noi siamo ancora fermi 


Friday 2 November 2012

i cieli E LA TERRA sono pieni della tua gloria

Mi son sempre piaciute le due giornate del primo e del secondo di novembre. Due giorni così carichi, e che come due fratelli si presentano mentre l'anno si avvia alla conclusione. Uno glorioso, vestito di luce, l'altro con i panni sporchi di sudore e sangue, affaticato, zoppo, immagine del nostro dolore.

...














"I cieli e la terra sono pieni della tua gloria!!"

Sì, Signore, i cieli sono pieni della tua gloria
e lo è la terra.
No, non solo la superficie della terra
ma piuttosto il suo grembo
sotto terra, come tanti semi che attendono di germogliare
i corpi dei nostri cari

Sono loro - i semi della tua gloria -
che riempiono della tua gloria la terra che hai creato
la gloria che tu hai seminato nelle loro vite
e - attraverso di loro - nelle nostre
questa è la gloria di cui è pieno l'Universo

Benedetto sii tu!!

Tuesday 9 October 2012

3 pensieri sulla Missione

Missione è convertire se stessi
Comboni morì alle 10 di sera del 10 ottobre del 1881. Le 10 del 10 del 10. Questa “coincidenza” numerica mi ha sempre fatto pensare a quel “tutto è compiuto” del Signore sulla Croce. Ma a pensarci bene, cosa si compì sulla Croce? Cosa si compì con la morte di Comboni? Tradimento, solitudie, sofferenza non sono certo gli ingredienti della vittoria, non per noi che abbiamo un modo holliwoodiano di intendere il successo. Qual’è il lieto fine?
La morte del Signore, e la morte di chi ha consumato la vita per il Regno, ci ricordano che la missione non è misurata con i nostri canoni di successo. Abbiamo la tendenza a intepretare la missione come un enorme partita a Risiko della salvezza. Ma la missione della Chiesa non è un impero la cui superficie si estende per chilometri, quanto invece il segno (pieno di contraddizioni) di un regno che è chiamato ad andare in profondità. Pensiamo alla Chiesa con categorie esteriori, forse perchè siamo ancora – tacitamente – dell’idea che la fede sia una questione di belle parole e numeri, mentre invece è una questione di silenzio e piccoli gesti inosservati.
San Paolo lo dice bene nelle sue lettere: il vangelo si estende nel mondo nella misura in cui mette radici sempre più profonde nei nostri cuori. “Il missionario – mi disse tante volte il mio padre maestro in noviziato – è responsabile della salvezza di un’unica anima: la sua”.

Missione è accettare la persecuzione (tenere lontano dalla portata dei bambini!!)
In un mondo dove la violenza e il desiderio di imporsi sono l’unica costante (... e la violenza gratuita è quello che ci distingue dagli scimpanzè, insomma l’unica cosa che ci portiamo dietro dai tempi dell’austrolopitecus... e poi dicono che il peccato originale è una favola per bambini...), siamo chiamati ad uscire dalla logica della violenza. Come? Senza vendicarci. E qui la cosa si fa dura. Proprio in queste ore l’Egitto ricorda la strage del Masbiro, dove un anno fa diversi cristiani furono uccisi in modo stupido, per una rabbia fomentata dall’ignoranza e dalla confusione. Come tacere? Come sopportare? Come non scappare?


















Nella sua lettera al Medio Oriente, il papa parla di Gesù come “l’unica porta”. Non c’è altra porta al futuro se non la scelta della non violenza. La scelta di imitare il maestro che ha accettato di farsi inchiodare in croce. Il maestro che davanti ai potenti si prende il lusso – l’autorità/potere – di non parlare. Mi vengono in mente le parole, pesanti come il sangue, di Pietro, nella sua prima lettera (cap.3):
E chi potrà nuocerci se voi sarete ferventi nel bene?
Ma se anche dovete soffrire a causa della giustizia, beati voi!
Non vi fate prendere dal timore che vogliono incutere costoro; non vi turbate,
ma santificate Cristo Signore nei vostri cuori,
pronti sempre a dare una risposta a chi vi chiede il motivo della vostra speranza,
con mitezza e rispetto, con una coscienza retta,
in modo che coloro che vi calunniano
abbiano a vergognarsi di ciò che dicono sparlando di voi,
a causa della vostra condotta intemerata in unione con Cristo.

Accettare di essere figli della nostra storia
Insomma, il cammino che siamo chiamati a fare, è tornare ad essere bambini. Lasciare che quel falso nostro “essere uomini”, modellato appunto sulla logica della violenza e della sete di successo e di potere, sia fatto a pezzi. E forse scoprire – per la prima volta – che in realtà non eravamo mai stati adulti, ma semplicemente bambinoni che credevano di essere cresciuti, ma che in realtà avevano continuato a fare i frignoni...
È un cammino difficile, quello di riconoscere che siamo figli della nostra storia, fatta di successi e di fallimenti, abbruttita dai ricordi ammuffiti e pieni di ragnatele dei nostri entusiasmi e buoni propositi, e invece arricchita dalla fantasia del Signore, che fa nuove tutte le cose, e che ha la mania di non stancarci mai con l’imprevisto, con le sue meraviglie.
Buon cammino a tutti. E buona festa della Missione.

Friday 7 September 2012

PRO VERITATE ADVERSA DILIGERE - grazie, Carlo Maria Martini!




PRO VERITATE ADVERSA DILIGERE
Mi ha colpito scoprire il tuo motto, caro padre Carlo. Un motto che sa di dialogo. "Essere affezionati alle sfide per amore della verità". 
Credo non ci sia atteggiamento migliore, di fronte alle contraddizioni, che la curiosità.
Meglio ancora se dalla curiosità uno riesce a fare il salto all'amore!

Grazie, padre Carlo, per averci ispirato. Non solo con parole profonde e significative (che comunque è merce rara), ma con l'esempio della tua vita!!

Thursday 6 September 2012

... se non ritornerete come bambini...

"Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno"...
è questa la frase che mi accoglie di ritorno in Egitto. Alla mia prima messa in Arabo... 
Sono parole che mi sono tanto care. Nella memoria mi riportano ad un altro "ricominciare" della mia vita. Quando in Kenya, nel luglio del 2007, mi era stato detto di non aver paura di dover cominciare da zero, come un bambino.

"Il Signore Gesù ha scelto lui stesso di scendere", mi dice un missionario degli Yarumal (l'ho visto solo una volta, ma mi ha segnato). E noi missionari che siamo chiamati a ripartire, in nuovi Paesi dove si parlano lingue che a mala pena balbettiamo... Anche noi sulle orme di colui che prima di invitarci a farci bambini, si fece lui stesso bambino.

"Come i bambini che balbettano, così affermo la tua gloria" dice il salmo 8.
Benedetto balbettare anche l'arabo.
Benedetta fatica di ricominciare:
nuovo essere (prete),
nuova comunità,
nuova missione,
nuove occupazioni.
Ma stesso orizzonte: il Regno di Dio

Monday 18 June 2012

Come? Egli stesso non lo sa

«Così è il regno di Dio: come un uomo che abbia gettato il seme in terra, e poi dorme e veglia, di notte e di giorno, mentre il seme germina e si sviluppa, senza che egli sappia come. La terra da sé produce prima l'erba, poi la spiga e poi nella spiga il grano pieno. Quando, infine, il frutto lo permette, subito si mette mano alla falce, poiché è giunta la mietitura».
Alla fine del capitolo più “agricolo” di Marco troviamo questa bellissima parabola. Gesù ci parla del Regno. Il Regno non è un ordine sociale, né un modo di vivere… anzi, è tutto questo, ma è molto di più. Forse il Regno è il volto dell’uomo nuovo, e allo stesso tempo il volto di Dio… del resto i due si assomigliano da essere l’uno l’immagine dell’altro, come diceva la Genesi.
 

Caro fratello, cara sorella,
mi trovo ad un momento davvero unico del mio cammino. Non tanto ad un arrivo, quanto ad una tappa. Credo si tratti di uno scollinamento, l’arrivo al gran premio della montagna, se mi permetti il linguaggio da Tour de France…
Dopo anni di cammino e di discernimento, la Chiesa mi ha voluto fare un gran bel regalo: mi ha “ordinato” prete. Cosa significa? Bèh, la risposta completa spero di dartela dopo qualche decennio di ministero; per ora, ci dobbiamo accontentare di qualche pennellata grossa, che fa sì e no da sfondo. Cosa sia il dipinto che ne verrà fuori te lo dirò un’altra volta.
In due parole, la Chiesa mi ha fatto dono di un nuovo nome. Non sto parlando del titolo di “padre” che dal 3 giugno accompagna il mio nome “Diego”… anche perché – fra noi – mi sembra che sia proprio un titolo in più, visto che il Maestro ci ha detto di non chiamare nessuno “padre”…
Il nome che mi è stato dato è un nome non pronunciato. Nella celebrazione del rito di ordinazione, tutto quello che si chiede allo Spirito Santo è di dare “la dignità del sacerdozio”. Trovo queste parole un po’ vaghe, ma devo dire che nel loro essere indefinite sta la loro forza. La Chiesa sceglie di dare ad alcuni il compito di spezzare il pane e di distribuire il vino che sono fatti il corpo e il sangue di Gesù. Solo al prete è dato di ripetere le parole “questo è il mio corpo… questo è il mio sangue”. Compito e responsabilità, perché per cantare il mistero dell’eucaristia bisogna allenare i polmoni dello spirito, e questo richiede un esercizio quotidiano.
Molti in questi giorni mi chiedono perché e come. Ad entrambe non sento di aver risposte da manuale. Forse è proprio questa bella parabola del vangelo che mi suggerisce la risposta: “senza che egli sappia come”.
La vita dello spirito non è come quella animale, che cresce fino ad un certo punto e poi si ferma, ma come quella vegetale: o cresce o muore. Fermarsi è morire.
Così il cammino vocazionale che mi ha portato al sacerdozio è stato il mistero di una scelta fatta quando ero molto giovane. Avevo 18 anni quando sono entrato nel postulato dei Missionari Comboniani. Sì, ero molto giovane. Troppo giovane per sapere cosa mi attendeva – ma del resto si è mai cresciuti abbastanza per poter conoscere i tornanti che ci attendono? Credo che quello fosse il tempo dello stelo, del verde, dell’entusiasmo.
Il cammino mi ha portato a confrontarmi con realtà diverse, a battere il naso contro la mia piccolezza, contro il dolore, e contro la fame e sete di senso nella quale milioni di fratelli e sorelle attendono l’alba del Regno. Sorrisi, risate sguaiate, lacrime e sospiri. Tutto compreso nel pacchetto. Ma che bello!!
Ora sono alla tappa della spiga. La Chiesa mi ha detto che sono spiga. Attendo che il chicco pieno cresca nella mia spiga. Non so cosa mi attende, non so che sapore avrà la spiga, non so quando verrà la mietitura, e come sarà. Ma l’attesa è gustosissima!
Caro fratello, cara sorella, che ti trovi in cammino. Ti auguro di trovare la pace e il coraggio per buttarti. Lo stelo fa il suo cammino in salita nelle mattine fredde della primavera. Non aver paura. Non scoraggiarti se ti senti solo. Godi della fatica, che poi un giorno la guarderai dall’alto della spiga, piena di chicchi. Vedrai che tutto avrà un sapore diverso, anche il fiato pesante degli inizi.

Wednesday 4 April 2012

Il Leone e l’Agnello


Carissimi amici e amiche!

Un abbraccio dal Cairo!! Eccoci a celebrare ancora una volta l’enorme mistero della Settimana Santa, il mistero di un Dio-uomo che accetta di morire per noi, per ognuno di noi, senza che lo meritiamo, e senza che glielo chiediamo.
La lettura della Passione mi commuove. Gli evangelisti abbondano di dettagli, e ad ogni pennellata sembra di cogliere un messaggio. Come se ogni pennellata portasse il peso di una lacrima, pregna di storia, di dolore, ma anche di speranza.
Con la fantasia mi siedo a fianco di Pilato. E lo guardo nel suo volto stupito. Si stupisce – Pilato – del fatto che questo anonimo galileo non abbia niente da dire in sua difesa.
Credo noi tutti ci dovremmo stupire, insieme con Pilato. Ci dovremmo stupire della mansuetudine di Gesù, che accetta di essere messo a morte nonostante la sua consapevolezza – profonda! – non solo “di avere ragione”… ma di essere il Volto di Dio!!
Lo stupore di Pilato è lo stupore di Giovanni, nel capitolo 5 dell’Apocalisse. Gli viene detto “non piangere: ecco ha trionfato il Leone di Giuda”. Credo non stia nella pelle dall’emozione, e comincia a guardare per vedere se può cogliere l’immagine di questo formidabile Re dei re e Signore dei Signori. Ed indovina cosa? Gli appare di fronte un agnello. Peggio: un agnello sgozzato. Ok, è vivo… ma non è certo quello che Giovanni si aspettava!
La vittoria di Cristo non sta nella vendetta, ma nella vita. Vince perché è vivo, è vivente e vivificatore. Non perché è vendicativo. Accetta di portare tutto il peso della sconfitta, pur di invitare al suo banchetto tutti quelli che si son fatti beffe di lui (compresi quei suoi discepoli che fino all’ultima cena hanno continuato a chiedersi chi fra di loro fosse il più grande – come dice Luca 22).
La scelta di Gesù è difficile. È molto difficile. Lasciarsi prendere in giro, umiliare, maltrattare, uccidere. E non battere ciglio. Lasciare che la storia prenda il suo corso, che secoli di ignoranza e oceani di stupidità si facciano avanti. E non demordere. Sapere di aver ragione, ma permettere che chi ha torto continui ad infangarci e a maltrattarci. E resistere. Altro che “chi la dura la vince”. La stoffa di Gesù è al di là delle nostre categorie.
Seduto a fianco del Pilato stupito, guardo anch’io la faccia di questo Galileo. Nei suoi occhi c’è abbastanza speranza per il mondo intero. Ma quanto è dura seguirlo! Il buonsenso mi dice di lasciar stare. Che faccio?

Buona Pasqua a tutti!

Monday 16 January 2012

lettera di p Cristian Carlassare

Il Signore ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio Gesù.
SAN PAOLO IN ROMANI 8,29


Juba, 15 Gennaio 2012

Carissimi amici

Da pochi giorni sono arrivato a Juba per alcuni incontri. Sono contento dunque di riprendere i contatti con tutti voi. La mia vita missionaria prosegue bene con tante gioie e sfide che vengono dal Signore e ci fanno camminare nella fede e nella carità vera. Durante l’anno scorso la comunità comboniana di Fangak ha vissuto dei grossi cambiamenti: padre Wellington è stato chiamato per un servizio in Brasile e fratel Raniero è partito per l’Italia. Padre Antonio continua la sua presenza missionaria contemplativa ad Ayod, a circa 100 Km di distanza da Fangak. E io mi trovo a Fangak pronto ad accogliere i nuovi confratelli che verranno a formare la nuova comunità. È notizia fresca che padre Gregor, un comboniano trentottenne di Berlino sarà con me a Fangak da Febbraio. Oltre a lui ci è stato affidato un seminarista perchè lo accompagniamo negli ultimi due anni di esperienza pastorale prima dell’ordinazione sacerdotale. Sono contento e sereno ma anche cosciente della grossa responsabilità che mi viene data nel dare forma alla nuova comunità.
Il 2011 è stato un anno molto intenso sia nelle attività della parrocchia che nella vita civile della nostra nazione. Il 9 Luglio c’è stata la proclamazione dell’Indipendenza del Sud Sudan. Il Sud Sudan è diventato una nazione dopo tanti anni di conflitto marcati da passi in avanti ma anche clamorose sconfitte, tradimenti, disaccordi e divisioni. L’indipendenza è stata dunque una grande conquista di civiltà, tappa raggiunta grazie all’accordo di pace firmato il 9 Gennaio del 2005.
Abbiamo organizzato una serie di iniziative alle quali la popolazione ha partecipato con grande convinzione. Abbiamo dato inizio alle celebrazioni proponendo la pulizia di Fangak per stimolare la gente a prendersi cura del proprio paese. Poi abbiamo celebrato la messa di mezzanotte cominciando la celebrazione intorno alla bandiera cantando l’inno della nuova nazione. E’ stato come se celebrassimo il Natale con la nascita del Bambino Sud Sudan. Al mattino del 10 Luglio la gente è venuta per un altro momento di preghiera dove abbiamo piantato tre manghi a simboleggiare il motto del Sud Sudan: Giustizia, libertà e prosperità. Ciascun mango ha preso il nome in Nuer di uno di questi tre ideali che vanno a fondare il nuovo paese: Cuong, Bang e Riang. Nella predica ho insistito sul fatto che i tre manghi per crescere hanno bisogno di cure: lavorare il terreno circostante, dare acqua e protezione dagli animali (vacche e capre); così anche il Sud Sudan ha bisogno di cittadini responsabili e autorità oneste e saggie. Per sigillare il momento è stato sgozzato un toretto secondo l’usanza Nuer, che sarebbe poi anche servito per il momento di convivialità del pomeriggio.
Nel pomeriggio abbiamo invitato le autorità locali, le due chiese presbiteriana ed evangelica, insegnanti e studenti, operatori sanitari e mercanti per un momento di condivisione non solo del cibo ma anche della memoria del passato. Abbiamo chiesto ad anziani ed adulti di raccontare alcuni avvenimenti significativi accaduti a Fangak. Alcuni interventi sono stati più azzeccati di altri, ma tutto sommato è stato un momento di riflessione e di crescita per tutti specie i giovani. E’ stato bello vedere come nei ricordi della gente padre Antonio era spesso presente accanto a loro anche nei momenti di paura e di pericolo.
Qualche giorno dopo la nostra celebrazione, ho sentito che il Consiglio dei ministri del governo ha indicato una serie di date significative che devono rimanere nella memoria dei Sudsudanesi. Per mia sorpresa queste date parlano di 191 anni di lotta per la libertà (1820-2011). Il governo ha voluto evidenziare che questa conquista viene da lontano, non solo dagli ultimi anni di guerra. Le tribù del Sud Sudan hanno dovuto prima di tutto lottare per sopravvivere e difendersi dallo schiavismo perpetrato dal Nord. Anche se lo schiavismo era stato proibito sulla carta era ancora praticato in Africa. Quando Daniele Comboni arrivò in Sudan si scontrò con questa realtà e cercò di improntare il proprio servizio apostolico con l’intento anche di rompere con questo meccanismo opprimente. Poi, le tribù del Sud hanno dovuto resistere al colonialismo dei bianchi imposto con la collaborazione di Turchi ed Egiziani. I Nuer sono passati alla storia per la loro recidività nell’accettare un governo straniero. Generalmente hanno assunto un atteggiamento di indifferenza verso le proposte delle autorità britanniche non accettando nessuna forma di sviluppo, scuola compresa. Ma in alcuni casi hanno organizzato ostruzionismo, sabotaggi e anche combattimenti. Rimane nella memoria di tutti l’uccisione da parte degli inglesi del condottiero Guek, figlio del profeta Ngundeng. È stato ucciso quasi per rappresaglia per spaventare e sottomettere i Nuer. Di questo periodo il governo ha voluto sottolineare alcune decisioni arbitrarie dell’amministrazione coloniale. Inizialmente il governo britannico aveva riconosciuto una certa diversità fra Nord e Sud tanto da impostare una amministrazione che avrebbe portato a una separazione. Inizialemente Sud Sudan e Nord Uganda erano sotto la stessa amministrazione. Ma avvicinandosi il tempo della fine del colonialismo, il governo britannico decise di unire il Sud Sudan al Nord. Alle richieste del Sud di un federalismo fece orecchie da mercante. Il Sudan arrivò all’indipendenza dal governo britannico nel Gennaio del 1956 con al Sud un ammutinamento cominciato nell’Agosto del 1955 che avrebbe dato vita alla prima guerra civile del Sudan chiamata Anyanya One. L’accordo di pace firmato ad Addis Abeba nel 1972 diede al Sudan un tempo di riposo, prima di ripartire con la seconda guerra civile che va dal 1983 al 2005. Due guerre civili che hanno interessato due generazioni se non tre, causato più di due milioni di morti e condannato la popolazione ad abbandonare le proprie terre e sfollare nei campi di rifugiati. Occorre anche essere onesti nel dire che il conflitto si è protratto così a lungo anche per le inimicizie e le divisioni tra le guide del Sud, cercando di perseguire gli interessi della propria tribù prima che del Sud Sudan. Questa sarà anche la grande sfida del Sud Sudan oggi. Quello che diceva Cavour per l’Italia vale anche per il Sud Sudan. Fatta la nazione occorre ora unire i Sudsudanesi come unico popolo, costellazione di diverse tribù ‘sorelle’. Lo slogan che la Conferenza Episcopale Sudanese ha scelto per l’occasione è proprio: Una nazione da ogni tribù, lingua e popolo.

A Settembre abbiamo avuto le consuete quattro settimane di corso per i catechisti e le guide della parrocchia. Quest’anno abbiamo dato ampio spazio all’educazione civica.
Abbiamo condiviso a proposito del Sud Sudan. soprattutto la storia che ha preceduto la nascita di questo paese africano. Un paese appena nato ma con molte aspettative. Se si è voltata pagina con il passato ora si vuole uno stato democratico, ma non a parole ma nella prassi. Durante la condivisione i catechisti hanno espresso tutta la loro frustrazione nel vedere quanto il governo locale sia incapace a rispondere ai bisogni della gente: i servizi fondamentali non sono offerti soddisfacentemente. Non sembra che la ragione di tanta lentezza sia la mancanza di fondi, ma la cattiva gestione di essi. Ci sono delle regioni del Sud Sudan dove lo sviluppo è evidente. È importante per la gente vedere questi segni di progresso perchè ha bisogno di guardare al futuro con ottimismo.
Nonostante tante ragioni per essere pessimisti, i catechisti di Fangak hanno condiviso tanta speranza in un futuro migliore. Stanno riponendo molte speranze nei giovani di Fangak che hanno avuto la possibilità di frequentare l’università e che ora sono all’estero o nelle grandi città. Quando loro saranno di ritorno saranno in grado di affrontare tutte queste problematiche con competenza. Sono rimasto molto ammirato dei catechisti che, nonostante non siano mai stati a scuola, hanno saputo identificare alcuni punti deboli della loro amministrazione. Hanno notato che il ‘commissioner’ (questore) è nominato dal governatore dello stato senza consultare la popolazione. Per questo accusano il presente commissioner di non rappresentare i propri cittadini, ma di curare solo gli interessi del governatore. Ovviamente il governatore si sceglie quelli che fanno parte della sua fazione e vuole l’appoggio di tutti i commissioner delle varie provincie. A lui conta che tutto sia in ordine e di poter mantenere il potere. Poi il commissioner, quando riceve il proprio salario e i vari soldi da destinare ai vari servizi, è molto bravo a far quadrare i conti e mostrare che tutto va bene. I cittadini si potrebbero servire dei capi locali incaricati dei villaggi per portare le loro istanze davanti al commissioner. Ma questi capi locali risultano non essere istruiti e, per di più, scelti tutti fra le fila dei sostenitori dell’SPLM. Questi semplici sono i primi a non essere in grado di alzare la voce contro l’autorità che dà loro da mangiare. Abbiamo concluso la condivisione con la domanda: cosa possiamo fare come chiesa in favore di una maggiore coscienza politica dei cittadini? I catechisti hanno suggerito cautela e tempo al tempo. Bisogna tenere presente che il governo è comunque ancora di tipo autoritario e militare: c’è bisogno di un lungo cammino perchè i valori democratici entrino a tutti i livelli.

Ad Ottobre abbiamo avuto la festa di Comboni celebrato da tutti i sudanesi come il padre della chiesa in Sudan. Abbiamo avuto il solito incontro dei giovani con tante attività. Quest’anno la celebrazione è diventata una festa ecumenica perchè anche i giovani delle altre chiese presbiteriana ed evangelica hanno voluto parteciparvi. È stato sorprendende e bello vedere quanto Comboni abbia la forza di unire tutti anche se appartenenti a chiese diverse.

A fine Ottobre sono stato impegnato nella costruzione della chiesa di Dhoreak. Questo era uno dei tanti lavori di fratel Raniero ma dopo la sua partenza ho dovuto prenderne la direzione. Ovviamente io non sono un lavoratore di esperienza come lui, ma con un pò di buon senso ho cercato di aiutare i cristiani a costruirsi la loro cappella tirandola su decentemente dritta. È stata per me una esperienza tutta nuova, dove al lavoro pastorale ho dovuto anche inserire il lavoro manuale. E devo dire che vi ho trovato anche tanta soddisfazione, perchè il lavoro è stato anche una occasione per fare pastorale. Lavoravamo tutta la mattinata. Quando il sole si faceva insopportabile ci ritiravamo sotto la pianta e di lì a poco arrivavano in raccolta i ragazzi per un pò di insegnamento che concludevamo con la messa. Dopo la messa ritornavamo al lavoro per gli ultimi ritocchi della giornata. Costruire la ‘chiesa di mattoni’ ci ha mostrato anche come costruire la ‘chiesa di persone’ collaborando tutti insieme per realizzare un progetto comune. La costruzione della chiesa ha sicuramente unito la comunità che in passato mi ha dato così tanti problemi e ora invece sembra diventare mia consolazione.

Da Novembre a Dicembre sono stato impegnato nelle visite ai centri e alle cappelle fuori Fangak. Quest’anno ho avuto la gioia di unire Stephen Ruot e Rebecca Nyatapa in matrimonio. È la prima coppia di sposi che ricevono il sacramento del matrimonio nei miei sei anni di lavoro nella parrocchia di Fangak. Avevano già completato il matrimonio tradizionale Nuer almeno quattro anni fa quando Stephen Ruot ha consegnato la dote al padre: ben 30 vacche. Oggi hanno già due bambini: Ecclesia CiengKuoth e Antonio Nyiduot. La loro relazione è stata abbastanza buona fin dall’inizio anche se hanno dovuto affrontare alcuni problemi abbastanza complessi e che, in alcuni momenti, hanno provocato qualche dubbio in Rebecca.
Stephen Ruot è un uomo di trentacinque anni. Undici anni fa era successo che suo zio era morto improvvisamente. Lo zio aveva varie mogli, fra cui anche Elizabeth Nyadak, una giovane ragazza ventiquattrenne che aveva già dato alla luce quattro figli. Iniziò una relazione fra Stephen ed Elizabeth approvata dalla gente del villaggio perchè lui desse ancora figli allo zio defunto. Ed è così che nacquero Samuel Gai e Teresa Nyantut. Quando io sono arrivato a Fangak ho incontrato anche Stephen ed Elizabeth e pensavo che questa fosse la loro famiglia. Ma ho poi scoperto che Elizabeth era vedova e che i figli non sono di chi li genera ma di chi ha dato la dote. Non c’era verso per Stephen di poter sposare Elizabeth perchè era moglie di un altro. C’è un proverbio Nuer che dice che se anche l’uomo viene sepolto è ancora il marito di sua moglie.
Quattro anni fa Stephen ha deciso quindi di pensare al proprio matrimonio e ha preso in moglie Rebecca. Nella sua fede ha deciso di lasciare Elizabeth per donarsi totalmente alla sua unica moglie. Ma era anche tenuto a continuare ad aiutarla economicamente. Rebecca purtroppo è sempre stata gelosa di questo e ha messo più volte in dubbio che Stephen abbia veramente lasciato Elizabeth. Avevamo finalmente fissato il loro matrimonio per il 18 Settembre, ma all’ultimo momento Rebecca disse di non sentirsi pronta. Arrivato il 24 Novembre nel loro villaggio Rebecca stessa è venuta a parlarmi a proposito del matrimonio. Abbiamo chiamato tutti gli interessati e abbiamo avuto un lungo incontro con tutti gli animatori del centro. Alla fine siamo arrivati alla conclusione di celebrare il matrimonio il 27 del mese, quando abbiamo visto che tutti gli ostacoli erano stati superati.
Durante la celebrazione c’è stata una grande partecipazione della gente e hanno vissuto il matrimonio come un momento sacro dove si invoca la grazia di Dio a benedire l’unione di Stephen e Rebecca. È stato molto commovente alla fine della messa ascoltare le parole di Elizabeth Nyadak. “Voi tutti sapete di quello che c’è stato tra me e Stephen. Non eravamo marito e moglie ma lui ha dato due altri figli a mio marito defunto. Lo ringrazio per quello che ha fatto e per il tempo che abbiamo vissuto insieme. Ma ora è arrivato il tempo per lui di avere sua moglie e di avere la sua famiglia. Io lo lascio libero da ogni dovere verso di me; che lui abbia la sua famiglia e se ne prenda cura, io ho la mia famiglia e i miei figli”.

Sono rientrato a Fangak il 18 Dicembre e il 19 è arrivata notizia che il comandante ribelle George Athor è stato ucciso. La versione ufficiale è che sia stato ucciso dall’SPLA in una località vicino al confine con l’Uganda. Si è detto che si trovava da quelle parti tentando di reclutare nel suo movimento ribelle anche giovani della regione dell’Equatoria. La gente ha accolto la notizia con grande maturità. “Athor era una grossa pietra d’inciampo per la pace e l’unità del Sud Sudan” molti mi hanno detto, “ma uccidere non è mai una soluzione. Morto lui i problemi rimangono. La sfida sarà invece come affrontare e risolvere i problemi”. Questa risposta mi ha sorpreso positivamente: io mi aspettavo che la gente celebrasse l’evento senza tanta riflessione.
Nei giorni precedenti il Natale abbiamo sentito di scontri fra i Nuer Lou e i Murle. Ad Aprile avevo avuto occasione di visitare i cristiani e i centri nella terra dei Lou e anche in quei giorni c’erano già varie tensioni fra i due gruppi. Verso metà anno, successivamente alla mia visista, c’è stato un ‘massacro’ perpetrato dai Murle alle spese dei Lou nella zona di Pieri verso metà anno. I Murle erano arrivati per rubare vacche, ma poi hanno ucciso molta gente e bruciato alcuni villaggi; è tipico anche dei Murle rapire bambini e crescerli come propri. Tanta violenza ha fatto nascere un grosso risentimento. Non sarà facile rimarginare le ferite: con la cultura della vendetta se ne aprono continuamente di nuove. Chiedo la vostra preghiera per questa mia gente. Sono certo che la Parola di Gesù possa insegnare alla gente a vivere in pace, lavorare per la giustizia e ad essere capaci di perdono.

Il 24 Dicembre i ragazzi hanno preparato il presepio. Hanno preparato tutte le statuine con la creta e poi le capanne di Betlemme. In verità le stalle erano molto più numerose delle capanne ed erano disposte in fila. Ad ogni stalla c’era una famiglia. E ogni famiglia aveva il proprio neonato proprio come Maria e Giuseppe avevano il proprio Gesù. Nella mia curiosità ho cercato di capire quale fosse la sacra famiglia, ma non riuscendo ad indentificare nessuna differenza fra una famiglia e l’altra ho chiesto loro che me lo indicassero. In realtà anche loro non avevano le idee chiare. Ogni famiglia era la sacra famiglia, tutti i bambini erano per loro Gesù. Quest’anno i ragazzi hanno inserito anche la presenza di Erode con il suo palazzo costruito con muri di mattoni e tetto in lamiere zincate. Se le famiglie del villaggio avevano molte vacche, capre e animali domestici; Erode aveva intorno animali feroci come la iena o il leone. C’erano anche i tre re magi in cammino verso Betlemme. Erode era alle loro spalle mentre Gesù presente in ogni bambino che li attendeva ancora un pò più avanti.
Nei giorni di Natale mi è capitata tra le mani questa preghiera di Sant’Agostino. Ve la mando con i miei più cari auguri di Buon Natale perchè questo appena passato sia come quello dei re magi: un Natale in cammino dove abbiamo lasciato tutto il male alle nostre spalle e ci dirigiamo a passo spedito verso il Signore della nostra vita.

Dio vuole che noi cantiamo alleluia
e lo cantiamo nella verità del cuore,
con la bocca e con la vita;
questo è l’alleluia gradito al Signore.
Oh felice alleluia del cielo!
Qui cantiamo alleluia,
ma lo cantiamo nell’affanno e nel travaglio,
lassù lo canteremo nella pace!
Qui lo cantiamo nella tentazione, nei pericoli,
nella lotta e nell’angoscia,
lassù lo canteremo nella sicurezza
e nella comunione vera.
Oh felice alleluia del cielo!
Canta come cantavano i viandanti:
canta e cammina!
Se cammini avanza nel bene,
avanza nella fede retta, avanza nella vita pura.
Senza smarrirti, senza indietreggiare,
senza fermarti. Canta e cammina!
SANT’AGOSTINO


Un forte abbraccio,
vostro padre Christian

Thursday 12 January 2012

forza bruta o forza bella?

Da meno di u mese insegno inglese nella prima e nella seconda classe della nostra Secondary school qui a Sakakini. L’altro giorno stavamo facendo un esercizio di vocabolario. Per ogni professione (muratore, studente, dottore, etc…) gli studenti dovevano fare una lista di attrezzi o cose che quel tipo di persona usa. Arrivati alla parola “insegnante”, se ne sono usciti con “penna rossa, lavagna, BACCHETTA”. La cosa mi ha impressionato.
È quantomeno vergognoso che nel XXI secolo ancora si picchino i minori. Che si usino le bacchette a scuola, proprio è una cosa che non mi va giù.
Vedo alcuni miei colleghi insegnanti girare per la scuola con la bacchette (con il direttore, però, stiamo lavorando perché questa cosa finisca). Ma mi chiedo: che autorità è quella di chi si impone con la forza della violenza, ma non riesce a trascinare con la forza dell’esempio? Infatti spesso e volentieri quegli stessi insegnanti che menano e fanno i duri sono gli stessi che non si preparano le lezioni e che non correggono i compiti per casa. Quale disciplina insegnano agli studenti? Non solo sono più temuti che amati (per via delle loro bacchette), ma sono disprezzati per il loro non essere impegnati. Altro che educazione: stiamo rovinando una generazione!
Sono troppo romantico se credo che un buon insegnante sia uno che trasmette passione per la conoscenza e per il lavoro assiduo? Sono troppo naive se credo che gli alunni devono vedere nell’insegnante un modello? Sono un sognatore ad occhi aperti se penso che quello che fece don Lorenzo Milani può essere ripetuto?