Sunday 31 May 2020

pentecoste, festa del raccolto

Pentecoste, festa del raccolto del grano
E per il popolo di Israele il più grande raccolto di tutti è stato fatto nel deserto
Erano appena entrati nel deserto, vi erano ancora stranieri
E hanno raccolto la legge
Il più grande raccolto

Ma per i discepoli chiusi nel cenacolo
Un raccolto ancora più grande
Non più la legge, quello che noi dobbiamo fare per Dio
Ma il vangelo, quello che Dio ha fatto – e continua a fare – per noi
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Saturday 2 May 2020

Missione: e dopo il Covid19?


(Nigrizia di maggio)

Abbiamo tutti seguito i primi atti di questa pandemia con una certa indifferenza, se non addirittura con cinismo. Finchè la pandemia era in un angolo di Cina, ci potevamo premettere il lusso di credere che fosse lontana. Ma i voli da Pechino a Malpensa sono frequenti e veloci, e prima ancora che ce ne accorgessimo il virus è arrivato lì da voi in Italia e in Europa. E ha cominciato a colpire senza pietà.
Inutile per me fare la cronistoria della quarantena, dapprima cominciata con i congiuntivi, e poi via via impostasi con forza. Per me comboniano a Khartoum, invece, è interessante vedere come la gente qui quotidianamente mi chieda come stia “la mia gente” in Italia. In arabo sudanese ahal “la gente” di qualcuno è la sua famiglia. I mali che accadono nel mio Paese lontano mi riguardano come mali che accadono alla mia famiglia. Già questo per me è essere “casa comune”, come papa Francesco ama chiamare il mondo.
Impossibile fare previsioni su come la pandemia si evolverà. Qui in Sudan ad oggi conosciamo di “solo” 14 casi ufficiali, eppure il governo sta già prendendo misure forti. Prima che morisse la prima vittima, il primo passo è stato chiudere areoporti e confini di mare e di terra. Il primo passo! Nei paesi che non hanno ancora “imparato” la democrazia occidentale, le misure sono state comparativamente più drastiche e in tempi più utili. Speriamo serva. Anzi, speriamo basti, perchè qui in Africa la prevenzione sembra essere non solo la prima difesa, ma anche l’unica.
La virus è democratico nel senso che colpisce tutti senza distinguere nazionalità, età, colore e genere. Ma la pandemia sta mettendo alla luce il forte divario fra una società post-industriale che si può permettere settimane di quarantena ed un sud del mondo sempre rimasto pre-industriale dove la gente lavora soprattutto a giornata, sia nelle zone rurali come anche in quelle urbane. Da queste parti, l’idea di uno shut down completo per due o tre settimane sta spaventando la gente più del virus stesso. Non si sa se temere di più l’epidemia in quanto tale, o i suoi effetti collaterali in campo economico. Il famoso proverbio messicano dice che quando gli Stati Uniti starnutiscono il Messico prende la polmonite... il problema oggi è: cosa succede al mondo quando sono gli Stati Uniti ad avere il febbrone?

Un giorno i nostri nipotini studieranno la pagina di storia in cui si parla dell’epidemia del corona. Avranno alla mano il numero delle vittime, ma anche un elenco di cose che saranno cambiate. Forse impareranno che avremo cambiato il modo di salutarci (proveranno imbarazzo al pensiero che fino al 2020 ci davamo la mano), ma ben altro. Sarà cambiata l’educazione; mentre finora l’uso dell’online sembrava una fisima degli addetti ai lavori, da ora in poi passerà non solo come possibile, ma come auspicabile. E in quest’ottica, la bancarotta di metà campus universitari nel nord del mondo è stata accellerata di almeno 10 o 15 anni. Sarà cambiato il modo di lavorare, di viaggiare, di impostare la casa e il tempo in famiglia. E – in un modo che non sappiamo ancora immaginare – sarà cambiata la Chiesa.

La Chiesa qui in Africa ha risposto in modi diversi allo sviluppo della pandemia. Fra le scelte più sofferte, come del resto nelle diocesi di ogni latitudine, la scelta di sospendere le messe e le attività in generale: scuole, catechesi, servizi sociali, incontri, attività di ogni tipo. Alcune conferenze episcopali, come quella dello Zambia, hanno preso questa scelta prima ancora che si parlasse di casi nei loro Paesi. Altre, come il Kenya o il Sud Sudan, hanno preso la decisione di rimbalzo alle decisioni delle autorità civili, quando ormai si era capito che la cosa non era un problema “solo europeo” più di quanto non fosse già stato “solo cinese”. Qui in Sudan pure siamo arrivati a questa dolorosa scelta – tanto più sofferta per il fatto che si è imposta nei giorni precedenti a Pasqua.
Al di là del giudizio su queste misure drastiche (non perchè sia troppo presto, ma perchè non è neppure giusto usare il metro del giusto e dello sbagliato in momenti di tanta confusione), fa riflettere quello che queste scelte ha messo in luce della Chiesa in Africa.

Innanzitutto, è venuto alla luce un divario fra la fede semplice della gente locale che dice “dobbiamo invece pregare insieme di più, perchè la preghiera ci salva” e il linguaggio dei missionari che invitano a sospendere le messe per ridurre il rischio di contagio. Si è come verificato un dialogo fra sordi. Se prendiamo per buono il modello di fede “trasmessa” dai missionari ai locali (e magari è qua che mi sbaglio), allora vien da chiedersi di cosa si stia parlando. Mentre i missionari fanno i loro distinguo fra fede e medicina, buona parte della gente si aspetta che la pratica religiosa funzioni da scudo. Non è solo una questione di alfabetizzazione, ma di forma fidei. Nella stragrande maggioranza delle religioni tradizionali africane, fede e guarigione non sono neppure due cose distinte. La pandemia del Covid 19 rischia di presentare la fede cristiana come una fede senza guarigione... o una fede astratta. Qualcuno citerà san Paolo che dice dei Giudei che chiedono segni e dei Greci che chiedono sapienza. Altre civiltà chiedono guarigione. E noi, come rispondiamo? La guarigione non è solo il pallino del Milingo di turno. Che risposta dà il vangelo alla sete africana di guarigione? Come riconciliare la ritirata fra le mura domestiche con l’assioma di Tertulliano caro salutis cardo (la carne è il perno della salvezza), per cui la centralità dei sacramenti poggia sulla loro corporeità e non è data Chiesa lì dove non ci sia comunione fisica fra persone?   

In secondo luogo, viene detto alla gente di pregare “in casa”. Anche qui, lasciamo ai posteri l’ardua sentenza di valutare le conseguenze di questo cambio di paradigma. Ma ci è possibile pensare a degli scenari. Fra i tanti, la possibilità che questa misura produca una spinta al movimento del disinteressamento, che – nonostante la letteratura romantica di alcuni missionari ancora ferma all’Africa delle savane – è già presente nelle città africane da diversi anni. Con l’urbanizzazione e la fine del modello villaggio/parrocchia, si è innestato nelle giovani generazioni urbane africane un bel po’ di distacco dalla pratica religiosa. Che sia ora di metterci in discussione?
Un altro scenario, che non necessariamente esclude il precedente ma casomai lo completa, è la possibilità che rafforzando la vita di preghiera in casa si venga a sgonfiare la piramidalità della Chiesa istituzionale – che pure è un altro white elefant della letteratura missionaria, che da sempre parla dell’Africano-uomo-di-comunione, e quasi mai affronta il problema dei vescovi africani che si atteggiano da capotribù. In più, nella fretta di trovare piattaforme social per far arrivare ai fedeli le messe, il rosario e la catechesi, si è ben capito che qui in Africa più che altrove il laicato urbano e i sacerdoti non sono certo sulla stessa pagina. Per dirlo in soldoni, mentre i giovani africani tengono il passo della rivoluzione mediatica, il clero locale si muove ancora con canali e ritmi vecchi di quarant’anni. Anche qui, il divario fra la Chiesa Cattolica e altre denominazioni pone alla prima non poche sfide. Nell’età del “comunico ergo sum” la Chiesa non deve chiedersi “a quanti” sia capace di comunicare, ma “cosa” stia loro comunicando.

La società africana ha fatto molti frog leap – “salti di rana”, ovvero salti qualitativi senza i passi intermedi che ci sono stati altrove – in molti ambiti: lo abbiamo visto nel campo telecomunicativo, sociale, politico, economico. Viene da chiedersi che salto verrà fatto nella Chiesa e nella missione una volta che questa pandemia sia passata. Viene da chiedersi se laici e consacrati faranno questo salto insieme, o se i primi lasceranno indietro i secondi.
Papa Francesco poche settimane prima della pandemia aveva indetto per il 2022 un sinodo sulla sinodalità della Chiesa. Chissà come questa stessa parola avrà un significato diverso dopo che avremo passato questo tunnel. Come ci siederemo al tavolo con gli africani rurali che abbiamo scandalizzato nel momento dell’epidemia, e con gli africani urbani ai quali abbiamo lasciato intendere che la messa in streaming è pur sempre messa?

In una forma o nell’altra, il Covid19 rappresenta un momento di smarrimento, simile all’esilio del popolo di Dio nella terra senza tempio, senza altare, senza offerta. Paradossale, che il chiudersi in casa sia esilio. Ma la storia della missione, in Corea come sui monti Nuba o in Amazzonia, ci insegna che la fede non muore con l’assenza fisica dei preti. Certo ci sarà una potatura, non solo numerica (ahimè dolorosa), ma qualitativa. Potatura di tante idee di grandezza, della confidenza nella nostra forza, nei nostri numeri e nei nostri modelli vecchi. Potatura come la Pasqua: morte e vita nuova.


Friday 1 May 2020

Sete di Pasqua

(Inserto Ormegiovani maggio)


Gv 19,25-42; 20,11-18

Gesù è sulla croce. L’evangelista Giovanni, l’unico dei dodici ad avere il coraggio di stare di fronte al maestro nell’ora del supplizio – o forse l’unico senza il cuore di lasciare sola una madre che accompagna il figlio ad essere inchiodato a morte – ci racconta dei dettagli che gli altri evangelisti non ci hanno dato.
Sono tre le frasi che Giovanni sente dire dal maestro. Discepoli di ogni quando e dove hanno sempre avuto la premura di trascrivere le ultime parole dei loro grandi maestri. Di regola imbellendo, aggiungendo, grammaticando, tagliando via i sospiri di troppo e i versi senza senso, soprattutto di chi muore nel sangue.
Invece il pescatore di Cafarnao del suo Maestro trascrive tre frasi che – a prima vista – non sembrano affatto solenni. Della prima (Donna, ecco tuo figlio... figlio ecco tua madre) possiamo dire che è enigmatica. Delle altre due (“Ho sete” e “Tutto è compiuto”) si potrebbe dire che sono così screve di cerimoniosità da essere imbarazzanti. Possibile che il Maestro che aveva affascinato le folle e fatto udire i sordi non avesse di meglio da dire?
Al di là della valutazione estetica, sono le tre parole che il Signore ci lascia. Dopo il testamento che il Signore ha proferito nell’ultima cena, dal capitolo 13 fino al 17, queste tre parole strane e stracce sono il testamento del testamento. Dei poveri mozziconi di legno bruciato con i quali ci vien dato di dare senso all’esecuzione che più di ogni altra esecuzione della storia non aveva senso.

Primeggia per la sua semplicità la parola “Ho sete”. Con queste parole, il figlio di Maria sembra chiudere la sua parabola esistenziale. Alla morte si arriva con il bisogno fisico più elementare, più semplice. È il compimento dell’incarnazione. Nella sua morte non meno che nella nascita lo riconosciamo uomo.
Ma più in là di questo, con la sete, chiude anche il suo ministero colui che era partito da quaranta giorni e quaranta notti di digiuno nel deserto, alla fine dei quali, ci dicono i vangeli, “ebbe fame”. Il ministero di Cristo è inscritto fra la fame e la sete, l’esigenza. Chi lo ricorderà solo per i miracoli lo ha confuso per un messia holliwoodiano, ma Gesù Cristo ci salva con la sua debolezza più che con i miracoli che ci piacciono tanto. Con la sua fame e sete, lui che era canzonato “mangione e beone”, sempre invitato a tavola da peccatori pure affamati di salvezza. La sua fame e la sua sete sono fame e sete di salvezza. Salvezza del mondo.
Mi ha sempre colpito vedere in ognuna delle cappelle delle Missionarie della Carità (“suore di Madre Teresa”) che questa parola – Ho sete – è appesa vicino al crocifisso, in qualsivoglia lingua. Nella sete del patibolo sul Getzemani si riassume la vita di Cristo: la sua incarnazione, il suo messaggio, il suo zelo divorante per la volontà del Padre. Ma si riassume pure la vocazione missionaria, ogni vocazione. Risponde a Dio solo chi sente la sua sete. Non solo; in quelle parole si riassume la storia del mondo, che attende salvezza, non solo la pancia piena, ma senso, dignità, amore.
In queste parole si trova, incredibilmente, anche la speranza. Come un pozzo nel deserto. La sete di Gesù non è un vuoto che consuma, ma una sorgente. “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10).

Così dalla croce Gesù non vuole ricevere, ma dare. Al discepolo amato ed alla madre dona l’un l’altro. Nell’ora dello smarrimento, della morte e della paura, ci dona la comunità. Lo vediamo in questi giorni, in cui il mondo è diventato come una stretta ed affollata zattera di Gericault (e quando il papa dice che siamo tutti sulla stessa barca, intendeva davvero tutti, anche quelli che sono davvero sulle barche...). 


La comunità ci dona la forza della solidarietà nell’ora in cui la disperazione digrigna i denti e fa la sua scommessa sul nostro cuore ferito.
Come se non bastasse, non ci dà “solo” la comunità. Ci dona lo spirito. Lui che muore di asfissia, ci da il soffio, tutto quello che gli rimaneva. Lo stesso alito vitale con cui ci aveva creati. Quella brezza che ci ha trasformato da polvere informe ad immagine di Dio. Muore il Dio della vita, ma la vita non finisce: è trasferita in noi. La vita eterna non è una quantità di tempo, ma la qualità del vivere di Dio. Vivere dando, perchè “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Anche queste sono parole che si sono incarnate di fronte a noi in questi giorni, nel sacrificio di medici, paramedici, volontari, e tanti altri eroi senza piedistalli e senza monumenti che la storia ricorderà in massa, ma che hanno dato la loro vita, se non anche il loro stesso respiro, per salvare altri, sconosciuti.
Ma ancora non basta. Persino da morto il Signore continua a donare, la sorgente non smette di zampillare. Gli viene trafitto il costato, e da questo escono “sangue ed acqua”. I padri della Chiesa vedono qui la nascita della Chiesa, nei sacramenti del battesimo e dell’eucaristia. Ma è anche da notare che Giovanni dice prima “sangue” e poi “acqua”. Perchè Gesù non ci da una vita in astratto. Ci da la sua vita. Dona la vita, per darci Vita. L’acqua che segue il sangue è già il primo fiotto della resurrezione.

E il giardino di Pasqua è irrorato dalle lacrime della Maddalena, che piange. Il Signore le chiede “Donna perchè piangi? Chi cerchi?”. Lei, fra i singhiozzi, non si cura di rispondere a tema, ma avrebbe dovuto confessare che non stava cercando qualcuno, ma un corpo morto. Ed invece ha davanti a sè il Signore della Vita. La scena è talmente lontana da quello che lei cercava, che non si accorge neppure che sta parlando non con il giardiniere del Getzemani, ma con il giardiniere della Genesi. Lui la chiama per nome, e lei torna alla vita. Non è risorto solo Gesù, quel mattino, ma anche Maria di Magdala, che era morta nella sua ricerca di un morto, ed ora si trova a parlare con Dio in un giardino. Vorrebbe fermarsi, ma il Signore la manda. “Va’ dai miei fratelli”. Pasqua non è tempo di fermarsi a trattenere. È tempo di correre. Tempo di dare.