Friday 21 February 2020

versi di st. Efrem


"Non è infatti il paradiso
il motivo della creazione dell'uomo,
ma è solo Adamo
il motivo per cui fu piantato il paradiso.“




"Abbi pietà, Signore, 
dei ciechi che vedono soltanto l'oro.“




"Il fango che tu hai fatto allora [Gv 9:6], Signore, 
ci dice che sei il Figlio del nostro Vasaio.“


Saturday 1 February 2020

Quella strana operazione


(Inserto Ormegiovani Febbraio)
Gv 6,1-15

Quando qualche anno fa mi trovavo al Cairo per lo studio dell’arabo, un mio compagno di corso, un pastore svizzero, mi raccontava di come nel suo seminario gli fosse stato insegnato di predicare senza mai usare la parola “Dio”. “Perchè – mi spiegava – alcune parole più le si usa e meno valore hanno”. Verissimo. Quante canzoni inneggiano all’amore, ma alla fine hanno sostituito l’amore come essere sconfitti con l’amore come possesso, far prigionieri.
Negli ultimi anni in cui i social hanno invaso la vita privata di noi tutti – in ogni continente –, un’altra parola ha perso significato: “condividere”. Condividere è diventato un tormentone psico-mediatico forse per ora solo superato da “mi piace”, del quale già alcuni studiosi osservano stia creando dipendenza e cambiando il nostro modo di ragionare e di comportarci.

“Condividi” così come lo troviamo sulle piattaforme social è una parola vuota. Sa di “batti un colpo, così, nel vuoto, giusto per affermare che ci sei”. Condividi quindi esisti. Piaci quindi esisti. Non importa più chi sia il ricevente della tua condivisione. Anzi, non importa più che ci sia un ricevente dall’altra parte dello smart screen. L’importante è che ti affermi. Condividi per condividere. Getta quello che hai nella pubblica piazza. E buona notte non solo alla privacy e al pudore, ma anche alla correttezza di essere sicuro di aver qualcosa da condividere – magari anche solo un pensiero, o un sorriso, ma qualcosa di valore.
Insomma, abbiamo perso i destinatari della condivisione, e anche l’oggetto. Rimaniamo solo noi, solipsistici cliccatori di “condividi” anonimi. Che triste.

Il vangelo di Giovanni, al capitolo 6, ci presenta il condividere di Gesù Cristo. Tutta un’altra storia. Lui vede la folla. Anche i discepoli l’hanno vista. Ma loro vedono nella folla un peso, un problema, mentre Gesù vede gente che ha bisogno sia del Pane della Parola, che lui ha appena dato (lui che è nato a Betlemme, la “casa del Pane”), ma anche del pane quotdiano. Come sempre, è chi ha gli occhi puntati su Dio che riesce a vedere il mondo con oggettività. Il santo è sempre inculturato, l’unico inculturato davvero.

Allora sfida Filippo, il discepolo studiato, quello che sa il greco, il cosmopolita del gruppo: “Dove possiamo comprare il pane perchè costoro abbiano da mangiare?” E Filippo con tutta la sua saccenza non sa guardare più il là del proprio naso. Si ferma ai fatti: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perchè ognuno possa riceverne un pezzo”. Interviene allora Andrea, amico della prima ora ma anche compaesano di Gesù, probabilmente con tono più mediatore se non addirittura ironico (me lo immagino parlare in dialetto, lui il pescatore di Cafarnao che parla al falegname di Nazareth): “C’è qui un ragazzo con cinque pani e due pesci... ma che cos’è questo per tanta gente?”
Gesù sorride a questi due discepoli che stanno imparando l’arte di rispondere alle domande scomode con domande stupide e dice “Fateli sedere”. E qui l’evangelista tira fuori un pennello di verde e li fa sedere sull’erba

Mi ha sempre colpito questa nota gentile, tra l’altro presente anche nei racconti di Matteo e di Marco. Mi sembra una metafora della gentilezza di Dio, che il bene lo fa sempre... bene. Non come noi che a volte “facciamo la carità” abbassando lo sguardo, storcendo il naso, o – peggio – alzando la voce. No; Dio quando dimostra il suo amore ti fa sedere sull’erba verde. Ti fa tornare nel giardino della sua presenza. Sedersi con Dio che spezza il pane per noi e con noi. Questa è la condivisione. Il resto è fariseismo che asservisce i “poveri” a recipienti del nostro perbenismo opulento e staccato.



La cultura sudanese conosce decine e decine di lingue, cucine, tradizioni, costumi. Il nostro è un Paese davvero largo. Se c’è una cosa, però, che accomuna tutti i sudanesi in modo davvero marcato è l’incrollabile e immancabile tendenza di condividere quello che si mangia. Quando passi di fronte a qualcuno che sta mangiando, non esiste altro saluto che “Faddal”, ovvero “favorisci”. È così automatico, che a volte i miei bambini a scuola mi dicono faddal anche quando il loro sandwich è finito e non rimane altro che leccarsi le dita... Ma scherzi a parte, è davvero interessante come di fronte al cibo la vita sembri fermarsi: il lavoro, le beghe, le parole vane. Ci si ferma e si mangia insieme. In silenzio. E poi si ritorna alle attività del giorno. Sembra quasi una liturgia. Noi missionari stranieri spesso ce ne stiamo fuori da questa liturgia, più in nome dell’efficienza nell’uso del tempo... ma a volte ho come l’impressione che facciamo da spettatori alla vita della gente. Spezziamo il Pane, ma non il pane. Che sia ora di condividere?