Tuesday 9 October 2012

3 pensieri sulla Missione

Missione è convertire se stessi
Comboni morì alle 10 di sera del 10 ottobre del 1881. Le 10 del 10 del 10. Questa “coincidenza” numerica mi ha sempre fatto pensare a quel “tutto è compiuto” del Signore sulla Croce. Ma a pensarci bene, cosa si compì sulla Croce? Cosa si compì con la morte di Comboni? Tradimento, solitudie, sofferenza non sono certo gli ingredienti della vittoria, non per noi che abbiamo un modo holliwoodiano di intendere il successo. Qual’è il lieto fine?
La morte del Signore, e la morte di chi ha consumato la vita per il Regno, ci ricordano che la missione non è misurata con i nostri canoni di successo. Abbiamo la tendenza a intepretare la missione come un enorme partita a Risiko della salvezza. Ma la missione della Chiesa non è un impero la cui superficie si estende per chilometri, quanto invece il segno (pieno di contraddizioni) di un regno che è chiamato ad andare in profondità. Pensiamo alla Chiesa con categorie esteriori, forse perchè siamo ancora – tacitamente – dell’idea che la fede sia una questione di belle parole e numeri, mentre invece è una questione di silenzio e piccoli gesti inosservati.
San Paolo lo dice bene nelle sue lettere: il vangelo si estende nel mondo nella misura in cui mette radici sempre più profonde nei nostri cuori. “Il missionario – mi disse tante volte il mio padre maestro in noviziato – è responsabile della salvezza di un’unica anima: la sua”.

Missione è accettare la persecuzione (tenere lontano dalla portata dei bambini!!)
In un mondo dove la violenza e il desiderio di imporsi sono l’unica costante (... e la violenza gratuita è quello che ci distingue dagli scimpanzè, insomma l’unica cosa che ci portiamo dietro dai tempi dell’austrolopitecus... e poi dicono che il peccato originale è una favola per bambini...), siamo chiamati ad uscire dalla logica della violenza. Come? Senza vendicarci. E qui la cosa si fa dura. Proprio in queste ore l’Egitto ricorda la strage del Masbiro, dove un anno fa diversi cristiani furono uccisi in modo stupido, per una rabbia fomentata dall’ignoranza e dalla confusione. Come tacere? Come sopportare? Come non scappare?


















Nella sua lettera al Medio Oriente, il papa parla di Gesù come “l’unica porta”. Non c’è altra porta al futuro se non la scelta della non violenza. La scelta di imitare il maestro che ha accettato di farsi inchiodare in croce. Il maestro che davanti ai potenti si prende il lusso – l’autorità/potere – di non parlare. Mi vengono in mente le parole, pesanti come il sangue, di Pietro, nella sua prima lettera (cap.3):
E chi potrà nuocerci se voi sarete ferventi nel bene?
Ma se anche dovete soffrire a causa della giustizia, beati voi!
Non vi fate prendere dal timore che vogliono incutere costoro; non vi turbate,
ma santificate Cristo Signore nei vostri cuori,
pronti sempre a dare una risposta a chi vi chiede il motivo della vostra speranza,
con mitezza e rispetto, con una coscienza retta,
in modo che coloro che vi calunniano
abbiano a vergognarsi di ciò che dicono sparlando di voi,
a causa della vostra condotta intemerata in unione con Cristo.

Accettare di essere figli della nostra storia
Insomma, il cammino che siamo chiamati a fare, è tornare ad essere bambini. Lasciare che quel falso nostro “essere uomini”, modellato appunto sulla logica della violenza e della sete di successo e di potere, sia fatto a pezzi. E forse scoprire – per la prima volta – che in realtà non eravamo mai stati adulti, ma semplicemente bambinoni che credevano di essere cresciuti, ma che in realtà avevano continuato a fare i frignoni...
È un cammino difficile, quello di riconoscere che siamo figli della nostra storia, fatta di successi e di fallimenti, abbruttita dai ricordi ammuffiti e pieni di ragnatele dei nostri entusiasmi e buoni propositi, e invece arricchita dalla fantasia del Signore, che fa nuove tutte le cose, e che ha la mania di non stancarci mai con l’imprevisto, con le sue meraviglie.
Buon cammino a tutti. E buona festa della Missione.