(inserto Ormegiovani Novembre)
Gv 4,46-54
Gesù incontra un funzionario del re.
Dopo l’incontro con il fariseo di alto rango nel capitolo 3 e la
samaritana di cattivo nome ma dal cuore sincero nel capitolo 4, questo incontro
sembra porsi all’apice di una progressione da quello che la società considerava
“santo” a quello che invece giudicava “peccatore”. Non può non venire alla
mente l’incontro con il centurione romano, outsider della salvezza, se non
esplicitamente nemico. Ma Gesù non si cura degli approval ratings, e proprio a
Cana dove aveva manifestato la sua gloria (cf. 2,11) si gioca la
reputazione ed entra in dialogo con questo uomo completamente mondano. Chissà
se non esiste qualche quadro fiammingo di questo incontro fra il profeta scalzo
e sgualcito ma pieno di luce con il funzionario coperto di pellicce ed ori ma
affamato di salvezza...
Nell’incontro fra questi due personaggi così vicendevolmente estranei, c’è
un’altra progressione che l’evangelista fa, parlando del secondo. All’inizio lo
chiama “funzionario”; ma appena entra in dialogo con Gesù e si
fida (affida?) diventa “uomo”; quando poi ritrova il figlio
guarito, è “padre”.
Gesù guarisce il figlio malato, ma ridona identità al padre, che fino ad
ora era definito dal ruolo, dalla posizione di privilegio, dal lavoro. Torna ad
essere uomo prima, per poi scoprirsi padre. Anche papa Francesco, in un’omelia
purtroppo dimenticata che fece ai sacerdoti un Giovedì Santo di qualche anno
fa, ammoniva i pastori che spesso dimenticano l’unzione perchè
oberrati dalla funzione. In una Chiesa che funziona da ONG, a
volte il rischio è di perdere la propria identità.
Cosa c’è dietro ad un nome? Qualche cinico obietterà, ma ci sta
tanto. Ricordo un giorno un gruppetto di miei studenti di settima (praticamente
seconda media), entrare nel mio ufficio al Comboni College. Entrano con il
sorriso sulle labbra, ma vedo che uno di loro vuole dirmi qualcosa che gli
pesa.
“Father – mi dice – ma tu lo sai come mi chiamo io?”
“Certo, Mohammad”.
Lui mi risponde con l’intenistà del dodicenne confuso e offeso,“Mohammad
chi? Siamo in sette Mohammad in classe. Perchè io dovrei chiamarti father
se tu non ti ricordi neppure il mio nome per intero?”
Non credo di essermi mai sentito così spiazzato davanti ad un ragazzo di
seconda media. Aveva completamente ragione. Il nome è tutto. Lo sapeva bene don Lorenzo Milani. Guardacaso
la Lettera ad una professoressa comincia proprio così “Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.” Lo sapeva
benissimo Paulo Freire, che la parola con cui descriviamo il mondo cambia
il mondo. Il primo lavoro di Adamo fu dare un nome alle creature, ovvero dare
loro un’identità, un posto. Con il nome si possono anche dare delle etichette,
incasellare, magari anche sminuire. Ma se non altro, si evoca alla vita, alla
presenza. Il Risorto si fa riconoscere perchè chiama per nome la donna che
piange: “Maria!”
Il nome. Nominare e ricordare in arabo sono lo stesso verbo, perchè ciò e
chi trova un nome sulla lingua ha un posto – fossanche scomodo – nel cuore.
Salmo 147 dice che Dio ha un nome per ogni stella del cielo; infatti lui le ha
create da artigiano, non con una macchina fotocopiatrice.
Gesù che riesce a perdere tempo per questo signor nessuno, gli
ridona il nome. A quante persone sappiamo dare un nome, un posto nella nostra
vita? Forse sarebbe interessante contare quante fra le persone che incontriamo
ogni giorno affollano il nostro angolo
dell’indifferenza. Magari al lavoro o a scuola le vediamo ogni giorno, ma
abbiamo scelto che devono rimanere sconosciute. Per chi vive in città
sicuramente la cosa sembra naturale, ma è proprio lì che casca l’asino, perchè
è la citta stessa ad essere innaturale: un agglomerato di persone senza nome e
di volti senza storia.
La vita si avvera con l’impegno mio e tuo di disintossicarci
dall’indifferenza, con l’impegno di coltivare quella curiosità e
immediatezza semplice dei bambini, che non hanno paura di fare il primo passo,
di uscire dagli schemi della società, di infrangere le gabbie del protocollo.
Fare il primo passo, un saluto, uno stringere la mano, un incontro. E scoprire
che fuori dal nostro piccolo recinto non è terra di nessuno, non è “hinc sunt
leones”, ma inizia una vita nuova, una vita di incontro. Scriveva Helder Camara
che un giorno da lontano aveva visto un animale rovistare nella spazzatura
della discarica. Avvicinatosi, aveva riconosciuto un uomo. Avvicinatosi ancora,
aveva trovato un fratello. Buon cammino!