Sunday, 4 October 2015

La gioia dell'incontro: Lc 24,13-35

(inserto Ormegiovani, Ottobre 2015)

Sbuffa e affanna il minibus mentre sale sulla collina di Moqattam, al Cairo. Il sole sta tramontando dietro di noi e la sua luce si getta impietosa sulle ferite scavate sulla montagna dalle ruspe che se la mangiano da anni. Il caldo, la luce, il paesaggio: tutto sembra essere duro stasera. E’ la prima sera di Ramadan, e sul minibus tutti tacciono. Forse perchè il primo giorno di digiuno è il più duro. Forse perchè le menti dei miei compagni di tragitto sono prese dall’attesa del cenone in famiglia di stasera - secondo le possibilità di ognuno. O forse la gola secca per il digiuno non ce la fa a sostenere quel naturale chiacchierio che si sente sempre sui bus e minibus cairoti. Fatto sta che questo silenzio sembra tanto ricordare lo sconfortato chiacchierio dei due, che al tramonto di un altro giorno di festa si incamminarono tristi verso Emmaus.
Conosciamo la storia. Uno staniero si avvicina, chiede loro di cosa stiano parlando, e si mette ad ascoltarli. La risurrezione dei loro cuori comincia con il silenzioso ascolto di questo straniero. Quanto prezioso è l’ascolto, anche oggi: in un mondo in cui tutti parlano, postano e condividono, pochi, pochissimi sembrano ascoltare davvero. Con pazienza.
 L’ascolto apre all’incontro, un incontro affettuoso nonostante lo straniero dia loro degli stolti (in fondo, sanno di meritarselo). E quando l’affetto si fa pane condiviso, allora si aprono loro gli occhi, il cuore brucia di gioia e le gambe non ce la fanno a star ferme: è già ora di ritornare.
 Mi piace enormemente il canto “Resurrezione”. Credo che la prima strofa sia quello che quei due si sono detti, mentre correvano indietro a Gerusalemme. “Che gioia ci hai dato”. Dalla delusione di poco prima alla gioia, l’entusiasmo. E allora diventa imperativo, anzi naturale, ripartire. Tornare sui propri passi, ma con la direzione opposta. Quante volte proprio le nostre delusioni e le nostre sconfitte si sono tramutate nell’occasione per ricominciare, per guardare al mondo con occhi nuovi. Il viaggio di ritorno sembra sempre diverso e più corto di quello di andata: mai questa impressione universale ha avuto più senso che quella notte, di ritorno da Emmaus.

 Non ci ardeva forse il cuore? E’ la domanda dei due discepoli di Emmaus. e allo stesso tempo la prova che la loro preghiera è stata esaudita: “Resta con noi, Signore, perchè si fa sera”. Sì, anche questo è un tema caro ad altri canti liturgici famosissimi, ma soprattutto è la prima preghiera della Chiesa dopo la resurrezione di Gesù. Senza saperlo, è la prima invocazione del Risorto, e la prima professione di fede nel fatto che lui solo è la luce, lui solo è il senso, la consolazione. Tante, tante volte lo invochiamo senza chiamarlo per nome. Senza sapere che stiamo chiamando lui. E molti che non conoscono il suo nome lo invocano con le preghiere che sono state loro insegnate, o a volte anche con le imprecazioni che salgono dal fondo della pancia. Il nostro cuore è stato creato per cercarlo, e non ci sono appartenenze confessionali o religiose che tengano: siamo tutti  creati a immagine del suo Padre.

 Il bambino di un anno non sa che dire la parola “mamma” e in quella parola vuol dire tutto: “ho fame, ho sonno, vieni qui, aiutami, non ci arrivo, voglio la tua attenzione…” La fede della Chiesa bambina è una fede che ruota intorno a quell’unica parola: “Signore”. Una parola che può voler dire tutto e il contrario di tutto. Può designare rispetto, reverenza, devozione, affidamento, ma anche ironia, rigetto, ribellione.

 Mi piace pensare alla fede nascosta di molti, in queste terre di Medio Oriente. Fede in Dio, nella resurrezione, anche senza conoscere il nome e cognome del Risorto. Fede nella forza della preghiera. Quante volte un musulmano mi chiama abuna (“padre”) e sento che anche in questa semplice parola c’è ben di più che reverenza o obbedienza all’etichetta (o anche - a volte - desiderio di ingraziarmi): sento la fiducia dell’altro nella fede mia. Nella misteriosa - ma efficace - presenza che cambia tutto. Che cambia il cammino in discesa, in direzione del tramonto e con il cuore in gola per la tristezza nell’incontro con il Dio vivente. E’ successo ad Emmaus, e succede ancora oggi a noi, se abbiamo il coraggio di ascoltare cosa ci portiamo dentro.

 Visto che siamo all’inizio di un nuovo anno di cammino, è tempo di fare auguri. Il mio augurio è che impariamo tutti a riconoscere cosa ci portiamo dentro, e impariamo a tirarlo fuori, presentarlo a noi stessi e a quel Dio sconosciuto che ci cammina a fianco. Ci tirerà le orecchie, chiamandoci forse anche “stupidi”, ma lo farà per farci riascoltare da capo una storia alla quale non avevamo ancora prestato attenzione. La storia del suo sogno per ciascuno di noi.