(inserto Ormegiovani, Ottobre 2015)
Sbuffa e affanna
il minibus mentre sale sulla collina di Moqattam, al Cairo. Il sole sta
tramontando dietro di noi e la sua luce si getta impietosa sulle ferite
scavate sulla montagna dalle ruspe che se la mangiano da anni. Il caldo, la
luce, il paesaggio: tutto sembra essere duro stasera. E’ la prima sera di
Ramadan, e sul minibus tutti tacciono. Forse perchè il primo giorno di
digiuno è il più duro. Forse perchè le menti dei miei compagni di tragitto
sono prese dall’attesa del cenone in famiglia di stasera - secondo le
possibilità di ognuno. O forse la gola secca per il digiuno non ce la fa a
sostenere quel naturale chiacchierio che si sente sempre sui bus e minibus
cairoti. Fatto sta che questo silenzio sembra tanto ricordare lo sconfortato
chiacchierio dei due, che al tramonto di un altro giorno di festa si
incamminarono tristi verso Emmaus.
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Conosciamo la
storia. Uno staniero si avvicina, chiede loro di cosa stiano parlando, e si
mette ad ascoltarli. La risurrezione dei loro cuori comincia con il silenzioso
ascolto di questo straniero. Quanto prezioso è l’ascolto, anche oggi: in un
mondo in cui tutti parlano, postano e condividono, pochi, pochissimi sembrano
ascoltare davvero. Con pazienza.
L’ascolto
apre all’incontro, un incontro affettuoso nonostante lo straniero dia loro
degli stolti (in fondo, sanno di meritarselo). E quando l’affetto si fa pane
condiviso, allora si aprono loro gli occhi, il cuore brucia di gioia e le
gambe non ce la fanno a star ferme: è già ora di ritornare.
Mi piace
enormemente il canto “Resurrezione”. Credo che la prima strofa sia quello che
quei due si sono detti, mentre correvano indietro a Gerusalemme. “Che gioia
ci hai dato”. Dalla delusione di poco prima alla gioia, l’entusiasmo. E
allora diventa imperativo, anzi naturale, ripartire. Tornare sui propri
passi, ma con la direzione opposta. Quante volte proprio le nostre delusioni
e le nostre sconfitte si sono tramutate nell’occasione per ricominciare, per
guardare al mondo con occhi nuovi. Il viaggio di ritorno sembra sempre
diverso e più corto di quello di andata: mai questa impressione universale ha
avuto più senso che quella notte, di ritorno da Emmaus.
Non ci
ardeva forse il cuore? E’ la domanda dei due discepoli di Emmaus. e allo
stesso tempo la prova che la loro preghiera è stata esaudita: “Resta con noi,
Signore, perchè si fa sera”. Sì, anche questo è un tema caro ad altri canti
liturgici famosissimi, ma soprattutto è la prima preghiera della Chiesa dopo
la resurrezione di Gesù. Senza saperlo, è la prima invocazione del Risorto, e
la prima professione di fede nel fatto che lui solo è la luce, lui solo è il
senso, la consolazione. Tante, tante volte lo invochiamo senza chiamarlo per
nome. Senza sapere che stiamo chiamando lui. E molti che non conoscono il suo
nome lo invocano con le preghiere che sono state loro insegnate, o a volte
anche con le imprecazioni che salgono dal fondo della pancia. Il nostro cuore
è stato creato per cercarlo, e non ci sono appartenenze confessionali o
religiose che tengano: siamo tutti creati a immagine del suo Padre.
Il bambino
di un anno non sa che dire la parola “mamma” e in quella parola vuol dire
tutto: “ho fame, ho sonno, vieni qui, aiutami, non ci arrivo, voglio la tua
attenzione…” La fede della Chiesa bambina è una fede che ruota intorno a
quell’unica parola: “Signore”. Una parola che può voler dire tutto e il
contrario di tutto. Può designare rispetto, reverenza, devozione,
affidamento, ma anche ironia, rigetto, ribellione.
Mi piace
pensare alla fede nascosta di molti, in queste terre di Medio Oriente. Fede
in Dio, nella resurrezione, anche senza conoscere il nome e cognome del
Risorto. Fede nella forza della preghiera. Quante volte un musulmano mi
chiama abuna (“padre”) e sento che anche in questa semplice parola
c’è ben di più che reverenza o obbedienza all’etichetta (o anche - a volte -
desiderio di ingraziarmi): sento la fiducia dell’altro nella fede mia. Nella
misteriosa - ma efficace - presenza che cambia tutto. Che cambia il cammino
in discesa, in direzione del tramonto e con il cuore in gola per la tristezza
nell’incontro con il Dio vivente. E’ successo ad Emmaus, e succede ancora
oggi a noi, se abbiamo il coraggio di ascoltare cosa ci portiamo dentro.
Visto che
siamo all’inizio di un nuovo anno di cammino, è tempo di fare auguri. Il mio
augurio è che impariamo tutti a riconoscere cosa ci portiamo dentro, e
impariamo a tirarlo fuori, presentarlo a noi stessi e a quel Dio sconosciuto
che ci cammina a fianco. Ci tirerà le orecchie, chiamandoci forse anche
“stupidi”, ma lo farà per farci riascoltare da capo una storia alla quale non
avevamo ancora prestato attenzione. La storia del suo sogno per ciascuno di
noi.
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