(Ormegiovani, gennaio 2016)
Poche pagine del
vangelo hanno la profondità della pagina delle beatitudini. Poche pagine
raccolgono in così poche parole un messaggio che è allo stesso tempo
profondissimo ed amplissimo. Profondo perchè penetra l’essenza stessa di Gesù, è
come il suo autoritratto, la sua carta d’identità – ed allo stesso tempo è un
viaggio nella profondità dell’umano, questo animaletto senza pelo che soffre la
fame, il freddo e la paura, eppure è stato coronato del privilegio di essere
l’immagine per eccellenza del Creatore dell’universo. Amplissimo, perchè è un
messaggio che raggiunge uomini e donne di ogni tempo e spazio, al di là delle
appartenenze di confessione, di religione, di lingua, colore, continente. È una
proposta per tutti.
Siamo abituati ad
immaginare Gesù che proclama le beatitudini con il mento alto e lo sguardo
solenne, perso nell’orizzonte. Come se parlasse a se stesso. A dire il vero, ci
immaginiamo che Gesù sia sempre così. Come un avvocato perennemente in modalità
“arringa finale”. Mi piace pensare – invece – ad un Gesù che a volte sorride,
parla sottovoce, magari balbetta anche, quando alla ricerca della parola
giusta. E del resto, se gli evangelisti le hanno trascritte con così tanta
concordanza, le sue parole, vorrà pur dire che erano state scelte con cura – e
avevano colpito chi le ascoltava.
Peggio di
così...
La pagine delle
beatitudini secondo me non fa eccezione. A volte mi chiedo se Gesù non voglia
giocare su una certa ironia popolare. Beato chi è già in fondo, perchè dal
fondo non può che risalire... Non fraintendetemi, non parlo di cinismo, ma di
sano realismo dei semplici. La vita è una ruota, e chi sta già in fondo ha la
consolazione – umanissima – di aspettare il suo turno. E viceversa, a chi oggi
se la ride toccherà prima o poi di dover stringere i denti e piangere. Fin qui
arrivava la saggezza popolare.
Ma Gesù va ad un
livello più profondo. Le Beatitudini di cui parla lui non sono un aspettare
passivo che la sorte cambi. La felicità di Gesù non è questione di statistica,
o di “destino”. La felicità di Gesù è una scelta. E lo capiamo da quel
“voi”. A differenza di Matteo, Luca specifica chiaramente i destinatari delle
Beatitudini: i discepoli. Coloro che hanno scelto – o meglio – coloro che ogni
giorno scelgono di seguirlo. Loro sono diventati poveri per scelta, ma con la
loro povertà arricchiscono il mondo (2Cor 6,10). Loro hanno fame oggi, e
saranno saziati nel raccogliere il frutto che già è pronto (Gv 4,34-38). Loro
oggi piangono, ma a loro verranno terse le lacrime, come annuncia il salvatore
(Ap 21,4). Loro oggi vengono perseguitati, ma il maestro promette loro la
vittoria finale (Gv 14,25).
Attaccati a
cosa?
La lista dei
“guai a voi”, allora, non sembra più un’aggiunta tanto per controbilanciare
l’eccessivo ottimismo delle beatitudini. Serve invece a commentarle, a spiegare
a chi non ha fatto la sua scelta cosa lo attende. A chi non ha scelto perchè
attaccato alle sue sicurezze, il maestro ricorda che queste non durano che un pò
di tempo. Tutte – senza eccezione – sono destinate a passare: i soldi, la
comodità, il successo, addirittura la buona reputazione. Qualcuno un giorno mi
ha detto che nella vita o facciamo delle scelte o facciamo delle fughe. La
“non-scelta” è fuga, è chiudersi in un vicolo cieco.
Mentre scrivo
queste righe, sento in me la tentazione di scrivere che i poveri ci insegnano
la gioia, che chi vive nella miseria materiale è ricco umanamente e
spiritualmente. Personalmente, come missionario, mi son sempre guardato da certe
riduzioni semplicistiche che continuano a dividere il mondo in buoni e cattivi,
dove i materialmente poveri sono i buoni che aiutano noi cosiddetti ricchi del
nord del mondo a sentirici in colpa – così da redimerci dopo aver tirato fuori
qualcosa di materiale. Dividere il mondo in due non è certo dar ragione alla
verità. La verità è che essere materialmente poveri è duro e fa male. E avere
la pancia piena piace a tutti. Dice un proverbio sudanese “Il pane è il sogno
del povero”.
Le Beatitudini
non ci dicono chi sono i buoni e chi i cattivi. Non ci dicono chi siamo, ma
ci chiedono chi vogliamo essere. Vogliamo essere attaccati alle cose e
diventarne schiavi? Papa Francesco ci ricorda che Gesù non condanna il denaro
ma l’attaccamento al denaro, nel nome del quale famiglie si dividono, amici si
separano, popoli fratelli si fanno la guerra. Oppure facciamo la scelta di
essere liberi. Liberi di farci scomodare da chi bussa alla nostra porta. Liberi
di lasciare andare le nostre ragioni, i nostri progetti. Liberi di essere anche
malcompresi, se non direttamente offesi e ridicolizzati per le nostre scelte.
A testa alta
Gesù invita i
suoi a delle scelte dure, che richiedono tanta determinazione e lucidità. Amare
i propri nemici non è cosa da poco, ma è estremamente liberante. Libera me e il
mio nemico dalla logica che lui mi voleva imporre. Lui voleva la guerra? E io
gli rispondo invitandolo a dialogare. Lui voleva togliermi la dignità di un
saluto, voleva picchiarmi? E io gli porgo la guancia in segno di affetto. “Ciò
che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” altro non è che
l’antenato della famosa frase di Ghandi “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel
mondo”. Purtroppo di questo tempo i media ci stanno convincendo della necessità
della guerra, e allora rispondiamo alle bombe con bombe. Ma questa strada non
ci porta lontano. Non è una scelta, ma una fuga. Fuga dalle nostre
responsabilità. Abbiamo lasciato che il terrorismo attecchisse sul terreno
dell’ignoranza – unico vero oppio dei popoli. E adesso vogliamo far tabula
rasa, cancellare tutto, anche i nostri fratelli e sorelle. Come stessimo
giocando ad un videogioco. La pace va costruita, anzi, seminata e curata con la
pazienza del contadino. Non si impone. O la scegliamo insieme, oppure è
un’altra finzione.
A noi oggi la
scelta: seminare bombe, sapendo che frutti ne raccoglieremo, oppure cominciare
un cammino di libertà? Speriamo di fare la scelta più furba!