(Ormegiovani, marzo 2016)
Quando un paio di
mesi fa ho letto la notizia del report dell’Oxfam “Un’economia per l’1%”, non
so se ha prevalso in me la rabbia, o l’indignazione, o la vergogna di
appartenere a questa generazione. Il report sostiene che i 62 più ricchi del
pianeta hanno tanto quanto il 50% povero della popolazione mondiale.
Interessante che la famosa “crisi” non abbia diminuito, ma anzi aumentato, le
finanze dei super-ricchi: per la maggior parte di persone nel pianeta la crisi
è stata reale, mentre per qualcuno è stata un tempo di crescita. Lo stesso
report suggerisce che una delle cose da cambiare sia la presenza dei paradisi
fiscali, dove si nascondono 7,6 trigliardi di dollari. Il sistema sembra non
solo “tollerare” gli esentasse e i conti che... non tornano, ma addirittura
facilitarli. È un sistema di esclusione, dove chi sta in cima alla piramide
economica non si interessa minimamente degli altri. A margine del report, Oxfam
ha anche denunciato che l’1% più ricco è già arrivato a possedere tanto quanto
il rimanente 99%. Non solo: questo dato assurdo è stato raggiunto già nel 2015,
con un anno di anticipo rispetto alle previsioni. Viene da chiedersi se dopo
questo dato ci siano altri record dell’inequalità da battere...
Questi dati sono
difficili da descrivere. Non credo esista una parola che esprima la stupidità con
cui le generazioni future vorranno condannare questo mondo in cui viviamo. Ci
gloriamo di essere un mondo dove la democrazia e la conoscenza stiano
avanzando, anche se a fatica. Ma siamo la prima civiltà liberale che abbia
silenziosamente accettato un’economia che ricorda tanto i feudalismi e le
oligarchie più ingiuste che la storia abbia conosciuto. In altre parole, se
rispetto ai Sumeri e agli antichi Egizi abbiamo aumentato la rappresentatività
di chi governa, dal punto di vista di distribuzione della ricchezza non abbiamo
migliorato molto, anzi, forse abbiamo anche aumentato il divario. Altro che
progresso umano!
A che serve
vantarsi di essere arrivati all’egualianza dei diritti civili fra uomini e
donne o fra bianchi e neri, quando l’ugualianza è solo fra i poveri e le
persone che subiscono le decisioni di chi davvero conta? Ed è davvero
democrazia, quella in cui vive l’Occidente, dove la scelta del presidente della
nazione più ricca è dettata dalle sue capacità finanziarie? (Per inciso, un
giorno gli Stati Uniti dovranno pur accorgersi che quello che loro chiamano
lobbying in altri paesi si chiama corruzione...)
La mente corre
alla trilogia fantascientifica di Suzanne Collins, The Hunger Games, che
descrive una futura società post-apocalittica in cui la popolazione della ricca
capitale organizza annualmente dei “giochi della fame” (da cui il titolo), un
reality show in cui i partecipanti dei distretti poveri e rurali si ammazzano
finchè non ne soppravvive solo uno. A leggere la serie, uno dovrebbe pensare
che queste cose succedono solo nella fantascienza, e in quella tendente al
pessimismo. Invece – nel mondo in cui viviamo – sembra che la realtà stia
correndo in quella direzione.
Uno potrebbe
porsi il problema “Ma io, sono fra i ricchi o fra i poveri?”. Moralmente, caro
lettore, ci consola il fatto che nè chi sta scrivendo ne chi sta leggendo
questo articolo facciano parte del’1%. Questo ci da l’autorizzazione a dire che
la colpa è di qualcun altro. Ma dal punto di vista esistenziale, invece, il
vero problema è che a entrambi noi due piacerebbe fare la vita dei nababbi, la
“vita spericolata, di quelle che non dormi mai”. Consciamente o meno, siamo
tutti ipnotizzati dallo stile di vita dei ricconi. Prova ne è il fatto che ci
siamo abituati a non scandalizzarci che i budget di squadre di calcio superino
quelli di governi africani. O che le rose di San Valentino vengano coltivate in
Kenya e trasportate per via aerea. Non ci scomoda il fatto che la maggior parte
del mondo viva già oggi la realtà degli Hunger Games. Gli esistenzialisti
dicevano che “la morte è sempre la morte dell’altro”. Altrettanto per la fame:
è sempre ‘la fame degli altri’ e finchè non tocca a me, ne posso parlare con un
certo distacco. La generazione prima di noi, quella industriale, aveva già
perso il senso della misura; ma la nostra ha perso il senso della vergogna.
Gesù nel
portafoglio
Se proprio ci
accorgiamo di quanto le cose non siano a posto, e se proprio ce ne sentiamo
almeno un po’ in colpa, una delle cose che ci viene spontaneo fare è cercare di
metterci la coscienza in pace. Apriamo il portafoglio, vediamo cosa c’è dentro,
e diamo qualcosa ai poveri. Non dico che sia sbagliato, anzi: la Parola di Dio
dice chiaramente che l’elemosina è un dono fatto a Dio stesso, e ci aiuta a
‘purificarci’ dai peccati. Infatti, liberarsi di qualcosa di materiale è sempre
e comunque un gesto di libertà. Ma ben altra cosa è fare la carità con
l’intenzione di sentirci buoni, ben altra cosa è vivere la carità. Una cosa è
aprire il portafoglio, un’altra è aprire il cuore. Dare qualche soldo fa del
bene, ma forse non mi trasforma tanto quanto prendermi del tempo per fare del
bene, per accogliere, per incontrare.
Il vangelo di
Luca torna spesso sull’uso dei beni. Il capitolo 16 si apre e si chiude con due
parabole che per certi versi sembrano controbilanciarsi. All’inizio del
capitolo troviamo la parabola di un cattivo amministratore che sperpera i beni
del suo padrone per ingraziarsi qualche debitore prima di perdere il posto di
lavoro. È una persona disonesta, e anche opportunista, ma se non altro è uno furbo
e Gesù non manca di far notare che i figli di questo mondo – un’espressione per
dire ‘i mondani’ – sono più scaltri e furbi degli uomini di religione, che
invece a volte si fanno sopraffare dagli eventi. Alla fine del capitolo,
invece, troviamo un’altra parabola in cui si parla di un riccone avaro e freddo
che finisce all’inferno, da dove si accorge che il mendicante che stava davanti
al portone di casa sua è beato in paradiso. Fra i dettagli interessanti di
quest’ultima parabola c’è che il riccone muore senza che ci venga detto il suo
nome, mentre del povero sappiamo che si chiama Lazzaro. Chi vive da solo muore
da solo, senza che nessuno pronunci il suo nome, senza amici. Muore che è
già morto da tempo, nel senso che la morte esistenziale lo coglie ben prima
di quella biologica. Invece il povero, che almeno aveva qualche cane per amico,
muore da vivo, e vive oltre la morte.
Di fronte ad una
parabola come questa viene da chiedersi chi sia davvero ricco e chi sia povero.
Economicamente, la ricchezza è presto intuibile dai vestiti che uno porta, dal
modo in cui cammina e da come parla. Ma anche la ricchezza spirituale ha i suoi
segni particolari: il sorriso, la serenità, la fiducia in Dio. Non mi capita di
rado – qui in Sudan – di incontrare persone che vivono una vita dura: senza
lavoro fisso, mangiando un pasto e mezzo al giorno, senza assicurazioni mediche
e senza la capacità di leggere e conoscere il mondo come ho io. Da molti punti
di vista la vita in cui si trovano è una vita che a me fa paura, che non
desidererei. Eppure capita di trovare persone con una pace interiore e una
serena confidenza in Dio che sinceramente mi disarmano. A me missionario non
manca nulla: un tetto, tre pasti al giorno, acqua, corrente, medicine,
macchina, telefono, ecc. Ma quanto avanti a me sono le mamme della nostra
comunità cristiana, che si spaccano la schiena per mantenere i figli (magari
anche da sole, se il marito non c’è più) e quando vengono in Chiesa fanno
tremare le mura con i loro canti di gioia! Sono loro le testimoni della buona
novella. Io al massimo faccio l’assistente. E piano piano mi lascio convincere
dal loro stile di vita che Gesù non abita nel portafoglio, ma nel cuore: nelle
relazioni, negli incontri fatti di volti, nomi, storie, esperienze condivise.
Spero proprio che questa quaresima sia un tempo in cui non apriamo solo il
portafoglio, ma anche il cuore. Cominciando da quella persona che mendica
davanti al portone della nostra indifferenza.