(Inserto Ormegiovani Febbraio)
Gv 6,1-15
Quando qualche
anno fa mi trovavo al Cairo per lo studio dell’arabo, un mio compagno di corso,
un pastore svizzero, mi raccontava di come nel suo seminario gli fosse stato
insegnato di predicare senza mai usare la parola “Dio”. “Perchè – mi spiegava –
alcune parole più le si usa e meno valore hanno”. Verissimo. Quante canzoni
inneggiano all’amore, ma alla fine hanno sostituito l’amore come essere
sconfitti con l’amore come possesso, far prigionieri.
Negli ultimi anni
in cui i social hanno invaso la vita privata di noi tutti – in ogni
continente –, un’altra parola ha perso significato: “condividere”. Condividere
è diventato un tormentone psico-mediatico forse per ora solo superato da “mi
piace”, del quale già alcuni studiosi osservano stia creando dipendenza e
cambiando il nostro modo di ragionare e di comportarci.
“Condividi” così
come lo troviamo sulle piattaforme social è una parola vuota. Sa di “batti un
colpo, così, nel vuoto, giusto per affermare che ci sei”. Condividi quindi
esisti. Piaci quindi esisti. Non importa più chi sia il ricevente della
tua condivisione. Anzi, non importa più che ci sia un ricevente
dall’altra parte dello smart screen. L’importante è che ti affermi. Condividi
per condividere. Getta quello che hai nella pubblica piazza. E buona notte non
solo alla privacy e al pudore, ma anche alla correttezza di essere sicuro di
aver qualcosa da condividere – magari anche solo un pensiero, o un sorriso, ma
qualcosa di valore.
Insomma, abbiamo
perso i destinatari della condivisione, e anche l’oggetto. Rimaniamo solo noi,
solipsistici cliccatori di “condividi” anonimi. Che triste.
Il vangelo di
Giovanni, al capitolo 6, ci presenta il condividere di Gesù Cristo. Tutta
un’altra storia. Lui vede la folla. Anche i discepoli l’hanno vista. Ma loro
vedono nella folla un peso, un problema, mentre Gesù vede gente che ha bisogno
sia del Pane della Parola, che lui ha appena dato (lui che è nato a Betlemme,
la “casa del Pane”), ma anche del pane quotdiano. Come sempre, è chi ha gli
occhi puntati su Dio che riesce a vedere il mondo con oggettività. Il santo è
sempre inculturato, l’unico inculturato davvero.
Allora sfida
Filippo, il discepolo studiato, quello che sa il greco, il cosmopolita del
gruppo: “Dove possiamo comprare il pane perchè costoro abbiano da mangiare?” E
Filippo con tutta la sua saccenza non sa guardare più il là del proprio naso.
Si ferma ai fatti: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perchè
ognuno possa riceverne un pezzo”. Interviene allora Andrea, amico della prima
ora ma anche compaesano di Gesù, probabilmente con tono più mediatore se non
addirittura ironico (me lo immagino parlare in dialetto, lui il pescatore di
Cafarnao che parla al falegname di Nazareth): “C’è qui un ragazzo con cinque
pani e due pesci... ma che cos’è questo per tanta gente?”
Gesù sorride a
questi due discepoli che stanno imparando l’arte di rispondere alle domande
scomode con domande stupide e dice “Fateli sedere”. E qui l’evangelista tira
fuori un pennello di verde e li fa sedere sull’erba.
Mi ha sempre colpito
questa nota gentile, tra l’altro presente anche nei racconti di Matteo e di
Marco. Mi sembra una metafora della gentilezza di Dio, che il bene lo fa
sempre... bene. Non come noi che a volte “facciamo la carità” abbassando lo
sguardo, storcendo il naso, o – peggio – alzando la voce. No; Dio quando
dimostra il suo amore ti fa sedere sull’erba verde. Ti fa tornare nel giardino
della sua presenza. Sedersi con Dio che spezza il pane per noi e con noi.
Questa è la condivisione. Il resto è fariseismo che asservisce i “poveri” a
recipienti del nostro perbenismo opulento e staccato.
La cultura sudanese conosce decine e decine di lingue, cucine, tradizioni, costumi. Il nostro è un Paese davvero largo. Se c’è una cosa, però, che accomuna tutti i sudanesi in modo davvero marcato è l’incrollabile e immancabile tendenza di condividere quello che si mangia. Quando passi di fronte a qualcuno che sta mangiando, non esiste altro saluto che “Faddal”, ovvero “favorisci”. È così automatico, che a volte i miei bambini a scuola mi dicono faddal anche quando il loro sandwich è finito e non rimane altro che leccarsi le dita... Ma scherzi a parte, è davvero interessante come di fronte al cibo la vita sembri fermarsi: il lavoro, le beghe, le parole vane. Ci si ferma e si mangia insieme. In silenzio. E poi si ritorna alle attività del giorno. Sembra quasi una liturgia. Noi missionari stranieri spesso ce ne stiamo fuori da questa liturgia, più in nome dell’efficienza nell’uso del tempo... ma a volte ho come l’impressione che facciamo da spettatori alla vita della gente. Spezziamo il Pane, ma non il pane. Che sia ora di condividere?
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