Appunti veloci sull’esortazione post-sinodale
di Benedetto XVI “Africae Munus”
di Benedetto XVI “Africae Munus”
Africae Munus è l’esortazione che Benedetto XVI ha scritto dopo l’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi per l’Africa. Ci ha impiegato due anni. Il risultato: una lettera piuttosto lunga (soprattutto per papa Benedetto che ci aveva abituato ad una certa brevità), molto profonda e interessante nella sua prima parte, quella propriamente teologica, ma un po’ al di sotto delle aspettative per quanto riguarda la parte più pastorale.
Un documento che ispira
Il grande pregio di questo documento è la carica di speranza e di incoraggiamento che si sente provenire dal papa. Si rivolge alla Chiesa africana con parole di fiducia. Non si stanca di far riferimento alle enormi potenzialità e ricchezze di questo continente. Da questo punto di vista, prende una certa distanza dal modo comune con cui i media ancora presentano questa terra e la sua gente: l’Africa non è solo guerre, fame, malattie e ignoranza, ma è un mondo ricchissimo di tradizioni e di risorse umane e intellettuali. Sì, l’Africa è afflitta da problemi molto seri, ma la sua dignità di “sale della terra e luce del mondo” la chiama con forza a stare in piedi. Il suo posto nel mondo è quello di un polmone. Immagine molto bella, ispirata – mi sembra – al modo in cui Giovanni Paolo II amava chiamare le Chiese Ortodosse.
La sezione cristologica del primo capitolo, che presenta Cristo come sorgente della riconciliazione, della pace e della giustizia, è molto illuminante. Bellissime le pennellate bibliche che Benedetto usa per dipingere la riconciliazione, la pace e la giustizia. Per quanto riguarda la riconciliazione, fa presente come la dimensione verticale della riconciliazione sia in ultima analisi un tutt’uno con quella orizzontale: riconciliazione con il Padre è riconciliazione con il fratello (Lc 15), e questo ha molto da dire in un continente dove l’odio e la violenza mascherata dalla menzogna dell’etnicità sono di fatto un crimine fratricida. Per quanto riguarda la pace, il pontefice sottolinea come la pace di Cristo sia totalmente altra dalla pace “del mondo” (Gv 14). La pace del Crocifisso è pace che parte dal perdono, non dalla vendetta, perché – lo sappiamo – la vendetta non pone mai fine alla catena dell’odio. Infine, la giustizia è rappresentata dal bellissimo episodio di Zaccheo (Lc 19). Come ha già indicato in quel gioiello che è Caritas in veritate, non c’è giustizia senza solidarietà, e mai come in questo tempo di crisi economica globale c’è bisogno di ripensare un modo nuovo di fare economia. In questo nessuno può negare che Benedetto è profeta.
Linguaggio vecchio… e la grande assente: la comunità di base
È proprio perché la prima parte mi piace così tanto che la seconda parte mi lascia un certo amaro in bocca. Ancora una volta, il linguaggio sa di stantio, di categorie antropologiche e teologiche vecchie che hanno bisogno di aria fresca. Non fraintendetemi: non voglio dire che nell’era della comunicazione il papa dovrebbe usare un linguaggio più “attraente”. La questione della forma rispetto al contenuto non è solo una questione di comunicazione, ma è ha un valore teologico. Questo, se mi permettete la parentesi, è chiaro proprio dal vangelo, quando in più di un episodio il narratore non ci dice “cosa” abbia detto Gesù, ma quello che ci sta attorno. Così è in Luca 5, fra il versetto 3 e il 4 e di nuovo al versetto 17, come anche in 24,27. Non è importante quello che Gesù ci dice, ma il fatto che stia camminando con noi e che ci parli. Se quindi diciamo che “lo stile non è acqua” non stiamo facendo una constatazione mediatica, ma un’affermazione teologica: la forma di quello che diciamo vale almeno tanto quanto il contenuto.
Quindi lascia un certo amaro in bocca il leggere fra le righe che il papa si affidi ancora una volta ad una vecchia, superata concezione di “inculturazione”. Ci sono due presupposti del vecchio modo si pensare l’inculturazione che sono sbagliati, o quantomeno profondamente discutibili. Innanzitutto, l’idea che si possa parlare di “culture” come di realtà statiche e che non si confondono, ci limita a fare del processo di inculturazione un lavoro di laboratorio (se non da museo), mentre fuori – ovvero nel XXI secolo – esiste quel processo devastante che si chiama “globalizzazione”. In un modo in cui ogni anno si perdono 25 lingue indigene, come si può continuare a parlare di “culture” nel vecchio senso del termine? La verità è che le culture non sono realtà, ma dinamiche.
In secondo luogo, il papa (ma con lui il sinodo stesso), cade nell’impressione che l’inculturazione sia un processo conscio. Questa è un’illusione che non riconosce che nelle terre di lunga tradizione cristiana l’inculturazione ha sempre impiegato secoli. Ricordiamoci che l’evangelizzazione dell’Europa l’hanno fatta i benedettini.
Sul piano ecclesiale, è davvero forte il punto di domanda che martella la mente di chi legge una volta che, ancora, si presentano i diversi elementi della Chiesa nel vecchio ordine: i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, i diaconi… e i laici son lasciati per ultimi. Non c’è neppure bisogno di dire come questo approccio non rispecchi la traiettoria data dal Concilio Vaticano II. Se la leadership nella Chiesa è una questione di servizio e non di potere, perché abbiamo paura di mettere i vescovi per ultimi?
Ma quello che più pesa è la completa assenza delle comunità di base. Per amor di precisione, l’espressione “piccole comunità cristiane” appare un paio di volte, ma sinceramente sembra sia semplicemente un modo fra i tanti di fare pastorale. Anche qui mi chiedo se siamo nel XXI secolo o se ci siamo rinchiusi in un museo. Fa bene il papa ad invitare ad una rinnovata pastorale biblica, e alla lettura quotidiana della Parola nelle famiglie. Ma come si potrà mai attuare tutto questo se non attraverso le comunità di base? È ora che la Chiesa in Africa faccia un’opzione preferenziale per le comunità di base. Dal punto di vista teologico e pastorale. Altrimenti, il modello della Chiesa come Famiglia, tanto caro al primo sinodo africano, rimarrà lettera morta.
Chiedo scusa se il linguaggio può essere sembrato forte, o addirittura irriverente. In realtà l’esortazione Africae Munus merita molto di più di queste poche righe. È un documento frutto di un lungo lavoro, e dai numerosissimi spunti di riflessione. Ho tralasciato un sacco di dettagli e ho voluto accennare solo le poche cose che mi sembravano più interessanti. Lo scopo di queste poche righe, da parte mia, è solo quello di invitare ad una riflessione.
Apriamo un dibattito sulle comunità di base in Africa?
diegomccj@gmai.com
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