Leggere le riflessioni di p. Paolo Dall’Oglio,
sacerdote gesuita ri-fondatore del monastero siriaco di Mar Musa in Siria, è
stato aprire le finestre dello spirito e della mente e sentire aria nuova,
fresca. Parla di dialogo fra Cristianesimo e Islam, e lo fa trovando strade
nuove. La sua riflessione è tanto più interessante e convincente per il fatto
di essere vissuta, nell’esperienza monastica della sua comunità di Mar Musa. Scrivo
qualche nota, per non dimenticare.
Il dialogo parte dall’amore
Paolo Dall’Oglio è conosciuto per espressioni che
sono tanto ardite quanto profonde. “Chiesa dell’Islam” e “doppia appartenenza”
sono forse due fra le categorie centrali del suo pensiero teologico. È interessante
scoprire che non rivendica la paternità di queste espressioni, ma che si
inserisce in un cammino che fu intrapreso prima di lui dal Beato Charles De
Focault, da Luis Massignon, da dom Christian De Cherge, e da molti altri.
Il dialogo nasce dall’amore e conduce all’amore. O
il dialogo parte dall’apprezzamento dell’esperienza altrui – senza complessi di
superiorità nè esigenze apologetiche – oppure invece di dialogo stiamo facendo
un dibattito, il più delle volte per vedere chi ha ragione (pp.
58,137-138). Schiavi di un’idea (superata o da superare?) di ortodossia per cui
o ho ragione io, o hai ragione tu, giudichiamo la storia del genere
umano “a partire da un’idea di rivelazione ancora molto letterale, molto rigida,
un po’ meccanica, magica e ingenua di un dio nascosto che fa cucù. Ne scarturisce
la caricatura di un Dio che si diverte ad ingannarci con religioni false e a
lasciare l’unica vera religione sotto il peso di una serie storica di
contraddizioni feroci e sanguinarie” (p. 153).
Amare l’Islam significa anche avere l’onestà – di fronte
a Dio e a noi stessi – di riconoscere a questa grande religione una dignità
teologica, un posto nel disegno di Dio. Probabilmente il ruolo di richiamare il
Cristianesimo ad un’auto-critica, il compito (ingrato) di ricordare al
cristianesimo calcedonese che non può vantare assolutismo e universalità, se
con queste si intende un senso di superiorità e di orgoglio. Come scrive bene
Paolo Branca nella postfazione, Cristo non conobbe momento più glorioso che
quando scelse di lavare i piedi. Come ci ricordava Martini, anche Ismaele è
erede delle benedizioni abramitiche, e la storia-destino di questo popolo (la umma)
è legata alla nostra.
Al di là del sigillo: il trampolino
Uno dei cardini della teologia di Innamorato
dell’Islam, credente in Gesù è la riflessione sulla profezia di Maometto e
il concetto di rivelazione. Dall’Oglio ci invita ad andare al di là dell’idea
del sigillo della profezia, per la quale dopo Gesù non ci sarebbe più nient’altro
da dire. Gesù non è il punto d’arrivo, ma un punto di partenza. Un trampolino. Quest’idea
mi piace molto, perchè è molto girardiana: Gesù incarnato, crocifisso e risorto
è il perno attorno al quale gira l’intera storia del genere umano, il momento
culminante (la pienezza dei tempi), promessa e compimento al tempo
stesso. Dall’Oglio colpisce per la sua straordinaria capacità di apririsi al
diverso, senza paura (anzi, con coraggio), non perdendo neppure per un istante
una fondazione (anzi una consacrazione) di tutto il suo essere e credere a
Cristo, e questi crocifisso.
Due punti di domanda e una curiosità
Innamorato dell’Islam, credente in Gesù è un invito a non aver paura del pluralismo. Anzi,
è un elogio alla pluralità quale segno di vitalità e fecondità (in piena linea
con la direzione indicata dal Concilio). È quindi naturale che sul suo scritto
ci siano – e ci saranno – opinioni diverse.
Personalmente, trovo il suo libro una miniera di
idee “nuove”, prima fra tutte l’idea della dignità teologica e della vocazione
escatologica dell’Islam (quest’idea è nuova per me, ma a leggere il libro mi
pare di capire che non lo fosse per Massignon). Ma ci sono due punti che non mi
convincono, entrambi per il loro essere “vecchi”.
Dal punto di vista teologico, il suo modo di
interpretare Muhammad mi ricorda la cristologia bultmanniana, quella che
sosteneva non ci interessa il Gesù storico, ci basta il Cristo della fede.
Analogamente, Dall’Oglio scarta il Muhammad storia e sceglie di seguire il
Muhammad della fede (pp. 105-108). Questo non mi pare accettabile. Lo so che è
dura conciliare i due, e credo che questo sia il vero dramma nelle coscenze di
milioni di mussulmani. Ma scegliere di separare i due Muhammad e di prendere la
via del Muhammad della fede mi sembra una scorciatoia sbagliata. Meglio impantanarsi
nel dilemma – per ora latente, ma che giorno dopo giorno si avvicina ad
emergere – di come conciliare i due. Forse l’Islam vive con trepidazione e
paura la sintesi fra i due, e forse proprio in questa tensione dobbiamo
inserirci anche noi cristiani.
Dal punto di vista della fenomenologia delle
religioni, mi colpisce il suo riferirsi al New Age come ad un movimento con un
nome ed un volto. Il fatto stesso di tirare in ballo il New Age è una cosa che
non sentivo da tempo. Anche il giudizio sulla globalizzazione e sulla
secolarizzazione – ovvero il considerarle come dei processi di imperialismo
culturale da parte della “cultura occidentale” sul resto del mondo – mi suona
vecchio. Credo che invece una riflessione teologica più girardiana offra un
giudizio meno bigotto sulla secolarizzazione, che a mio parere rimane un
processo intrinsicamente a-culturale e a-culturalizzante. E fondamentalmente
positivo.
Dal punto di vista pastorale, mi rimane un dubbio –
enorme – su come p. Paolo riesca a tradurre questo pensiero in prassi ordinaria
per dei cristiani socio-economicamente poveri. Come missionario che si appresta
– in sha Allah – a lavorare in Sudan, mi chiedo se e come poter
tradurre questa riflessione in ortoprassi per l’uomo della strada.
Grazie
Indubbiamente mi sento molto arricchito dall’incontro
con la riflessione di p. Paolo. Riprendo il mio cammino di missionario in Medio
Oriente con una rinnovata voglia di entrare in dialogo, con amore vero per i
mussulmani e la sincerità del loro credere. Mi impegno a coltivare l’atteggiamento
della curiosità e a custodire l’impegno del rispetto. “Avremo l’Islam che
avremo saputo sperare!”
In secondo luogo, mi edifica e mi sprona a
ripartire con cuore nuovo il senso di gratitudine e stima che p. Paolo esprime
per i Cristiani del Medio Oriente, sia per la loro fedeltà a Cristo che per la
loro capacità e fecondità spirituale, che sono testimoniate dal loro essere
Chiesa plurale.
L’incontro/dialogo con l’Islam ci chiama ad essere
cristiani migliori (p. 123). Ringraziamo Dio di questa chiamata, e accogliamola
con gioia!
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