(inserto Ormegiovani, nov 2015)
Nella fattoria in cui sono cresciuto avevamo due cani, ognuno legato alla sua catena alle due estremità opposte del cortile. Spesso, quando uno dei due veniva slegato, andava a recuperare un qualche osso e mettersi a sgranocchiarlo proprio ad un metro di distanza da dove l’altro poteva arrivare con la sua catena, suscitando la rabbia dell’altro. La scena faceva ridere, ma credo che per i nostri cani fosse un modo di dar sfoggio della propria situazione di superiorità.L’homo sapiens funziona più o meno allo stesso modo. Fin dai tempi di Caino, abbiamo inventato città e periferie, per dichiarare a noi stessi e agli altri che c’è sempre qualcuno che sta al “centro” del potere e qualcuno che sta “fuori”. Le periferie sono un criterio geografico, ma prima di tutto sociale. Sono un’affermazione di un rapporto di superiorità/inferiorità (e a volte fa comodo anche essere inferiori, per far le vittime, ma non mi soffermo su questo...). Le periferie sono sempre gli esclusi dal potere: le donne, le minoranze etniche e linguistiche, il diverso, quello che la pensa in modo diverso dal mio, o quello con la pelle di un altro colore (inbarazzante che nel 21imo secolo ne parliamo ancora, eh?).
Qui in Egitto, dove l’urbanizzazione e la concentrazione delle risorse sono scandalosamente forti, le periferie abbondano. Non ci sono solo quelle di cemento (come Helwan, dove vivo ora: una periferia di cemento famosa per le fabbriche di cemento: c’è così tanta polvere nell’aria che non si capisce se siamo noi a vivere nel cemento, o il cemento dentro i nostri polmoni...), ma anche tutte le altre: se ti capita di essere donna, cristiana, e magari anche un po’ scura di pelle, hai fatto il poker dell’esclusione.
Per chi sta “dentro” la cerchia dei fortunati, la cittadella dei privilegiati, è importante che i confini siano chiari, e che siano rispettati. Per chi sta fuori, spesso, l’unico ordine costituito è quello fatto da chi sta dentro. Spesso manca l’idea stessa che ci sia un modo diverso di parlare, agire e vivere: alla gente che sta ai margini viene insegnato che esiste un solo modo di parlare, di vestirsi, di comportarsi e di essere forti, e – guardacaso – è il modo di chi sta dentro la cittadella. Questo è il processo di alienazione denunciato da grandi educatori come Paulo Freire, Julius Nyerere, don Lorenzo Milani e Ivan Illich. Questa stessa alienazione è il fondamento culturale delle grandi migrazioni di oggi: chi vive nelle periferie del globo segue il miraggio della fortezza d’oro nella quale trovare fortuna e prosperità. Nel migliore dei casi, lo aspetta un risveglio molto amaro.
A volte, però, chi vive nelle periferie si alza dalla polvere della sua “sfortuna” e apre gli occhi per accorgersi che anche la sua vita è degna di essere vissuta, anzi è proprio bella. I poveri, gli esclusi, gli emarginati sono a volte maestri del senso di gratitudine a Dio per quello che di bello c’è nella loro vita. Alcuni di loro sono testimoni di una gioia forte, che ricorda tanto la gioia di Maria che corre da Elisabetta (Lc 1,39-56): una gioia che è movimento, madre, speranza, rinnovamento.
La gioia delle periferie è movimento. Maria si mette in viaggio “verso il monte”: in salita come Mosè ed Elia, verso Dio, senza paura della fatica. La Gioia non è pigrizia e attesa, ma iniziativa. Come dell’innamorato che non sa aspettare e scavalca le mura. Parte, anche se gli altri non capiscono. Maria che si reca “in una città di Giuda”: sembra di sentire il commento dei vicini, che non capiscono neppure dove stia andando, la ragazza. Chi vive nella gioia non si lascia attardare da chi non vuole seguirlo.
La gioia delle periferie è madre. “Benedetto il frutto del tuo grembo... Appena il tuo saluto è giunto a me, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo”. Mai come in questa pagina del vangelo la gioia è... viscerale! La gioia porta alla vita, da vita, è madre. Non è sterile, ma sviluppa e fa nascere una vita nuova. Chi è toccato dalla gioia non guarda indietro.
La gioia delle periferie è cieca. “Beata colei che ha creduto” ancora prima che le parole si realizzassero. È la stessa beatitudine di Tommaso, la prima e l’ultima: beato chi crede senza aver visto. E i cosiddetti “poveri” sono spesso maestri di fede: fede che Dio – la loro ultima speranza – li ascolterà, o che almeno li aiuterà a superare le difficoltà. Quante volte, visitando qualche malato sono io che vengo incoraggiato ed edificato dalla sua fede profonda, a volte forse devozionale ma spesso piena di sapienza, una sapienza che guarda al di là dell’ora e del subito, al di là del dolore di adesso.
La fede cieca – o forse la gioia cieca – finisce così col vederci meglio di me, che con tutti i miei anni di studi teologici e pedagogici finisco per avere un sacco di belle teorie, mentre la realtà della vita è un mistero molto più vasto. La fede cieca è una fede senza “perchè”, ma con tanti “nonostante”. È senza prove, senza evidenze che confutino il dubbio, ma si fonda su una serie di esperienze personali, in cui la misteriosa presenza di Dio porta senso lì dove nessun altro vede il senso. Difficile per me mettere per scritto quello che voglio dire... credo sia proprio parte del mistero.La gioia delle periferie parte dalle periferie geografiche e sociali, per sfidare le periferie del cuore. Ognuno di noi si porta dentro i propri sogni e i propri incubi: c’è così tanto di noi stessi che vorremmo escludere, tenere al di fuori delle mura di cinta che custodiscono il nostro orgoglio personale, la nostra reputazione, l’impressione (fondata o meno) che siamo forti, capaci, invincibili, indispensabili. E invece abbiamo bisogno delle nostre debolezze e dei nostri limiti per ricordarci che siamo fatti di carne, che nessuno di noi è il centro dell’universo, ma che siamo tutti... poveri. Non esistono due gruppi, “noi e i poveri”: esistiamo solo “noi i poveri”. E Dio che ci viene incontro, sorridendo.
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