(inserto Ormegiovani di dicembre)
Gv 1:1-18
“In principio
era il Verbo”. Ovvero, la Parola. Eccheggiano queste parole solenni in
tutte le chiese del mondo il giorno di Natale.
“In principio”.
Giovanni apre il suo vangelo con una introduzione che ha il sapore dell’eternità,
non però quella in avanti, ma quella a ritroso. Perchè con Gesù non è iniziata
un’altra storia nova, ma la storia è cominciata di nuovo.
L’introduzione di
Giovanni ruota attorno a tre immagini: Parola, Vita e Luce.
Tutte e tre si inseriscono in una visione del mondo squisitamente semitica,
perchè tutte e tre negano quella che invece è l’esperienza più quotidiana e più
sofferta di quella fetta di umanità che chiamiamo Medio Oriente, ovvero il
deserto.
Personalmente, ho
scoperto il deserto quando venni in Sudan per la prima volta, nel 2009. Un
giorno fui invitato ad unirmi ai maestri della scuola per una gita “ad un
monastero copto in mezzo al deserto”. Io che son cresciuto pensando al
deserto come lo si vedeva nei film di Bertolucci, credevo mi sarei trovato in
un luogo così bello da essere trascendente, trasfigurante. Ed invece, alla
fine, il monastero non era che una pallazzetta di tre piani di cemento armato
nel mezzo di una spianata di sabbia grigia piena fino all’orizzonte di
sacchetti di plastica (non sto esagerando!). Ancora oggi la delusione mi fa
ridere.
Non voglio dire
che non esistano deserti belli da visitare (altrimenti mi attiro le ire dei
turisti navigati), ma per me il deserto così come lo intende la Bibbia è un
posto squallido, non una scenografia da picnic. È ostile, duro, senza
misericordia. Se ci mettiamo d’accordo su questo, credo che possiamo capire
queste tre immagini giovannee.
La parola
rompe il silenzio. Interessante che in ebraico midbar significhi sia
deserto che cassa vocale: “una voce risuona nel deserto / nella bocca”,
ma non è un boato senza senso: è una parola di vita. Porta un messaggio, una
buona notizia. Indica il cammino alla vita, a noi che siamo seduti in un
deserto che sa solo presentarci morte tutti i giorni. Forse oggi che viviamo
nel frastornato e fastidioso baccano mediatico di parole vuote, Giovanni ci
avrebbe detto che Gesù si rivela nel silenzio, ma questo silenzio sarebbe ben
altro che vuoto non-essere: sarebbe finalmente presenza, della quale abbiamo
tutti sete. L’unica parola che conta.
Vita è antitetica al deserto, che sa offrire
solo rocce e sabbia, un terreno egoista che non trattiene l’acqua, ma la fa
sparire. La parola è vita perchè finchè c’è qualcuno che dice la parola e qualcuno
che la ascolta, siamo vivi almeno in due, quindi non siamo soli.
Luce. Il deserto è antitetico alla luce perchè
passa da averne troppa di giorno a non averne alcuna di notte. Per questo i padri
del deserto hanno imparato a cercare un’altra luce, quella che illumina dentro.
Anche noi oggi a Natale, un po’ come per le voci chiacchiericcie e le
campanelline che nulla hanno a che fare con la Parola, ci circondiamo di un
milione di luci, forse fedeli alla devozione pagana dei nostri antenati per il Sol
Invictus (deprime sentire che in Gran Bretagna sia ormai d’etichetta non
parlare più di Natale, ma di “Festa della luce”, come se dopo aver capito che
come cristiani dobbiamo rispettare tutti ci fossimo messi in testa che adesso
dobbiamo vergognarci di essere cristiani, altrimenti siamo dei fascisti).
Giovanni fa
ruotare queste tre immagini, la parola, la luce e la vita per intodurre Gesù.
Niente di artisticamente più
attraente agli occhi dei suoi fratelli ebrei, niente di poeticamente più
affascinante agli orecchi di un popolo di deserto. Sembra un film bellissimo,
una melodia maestosa. Tutto torna. Tutto quadra. La promessa di Dio è alle
porte.
E proprio lì
quando tutto comincia ad aver senso, Giovanni introduce la cosa più strana, più
deludente, se non addirittura imbarazzante. “La Parola si fece carne”.
Mi sembra quasi
di sentire qualche suo compagno reagire. “Cosa? Carne? Ma sei sicuro? Ma di che
parli? Dio, la sua Parola, la sua Luce, la sua Vita diventano carne?”
Giovanni sorride.
Ha appena tritato le aspettative poetiche e teologiche dei suoi fratelli ebrei,
le aspettative gloriose di un messia forte e le ha messe in quel fagotto di
debolezza e miseria che è il corpo umano. Dio che si fa uomo. Robe dell’altro
mondo.
Natale è tante
cose, ma è anche la celebrazione di una delusione che si estende nei secoli e
nelle latitudini. In Palestina 2000 anni fa come anche oggi in Italia, in
Sudan, ovunque, tutti ci aspettiamo una salvezza eterea, piena di luce e con
una colonna sonora di Enya, indolore e magica, che ci trasporti in un momento
da un mondo fatto di dolore e sofferenza ad un paradiso fatto di un infinito
sospiro di sollievo. Praticamente, un trip.
E invece Dio ha
un altro piano. L’eterno sospiro all’incontrario, quello dello stupore.
Aspettavamo un leone, e ci hanno mandato un agnello, sgozzato (v. Ap 5,5-6).
Aspettavamo un Dio con la bacchetta magica, e ci troviamo di fronte un messia
appeso alla croce.
Aspettavamo la
gloria divina, qualsiasi cosa, bastava che avesse qualcosa di holliwoodiano, ed
invece ci è dato un bambino, figlio di dubbia legittimità di una coppia di
malcapitati. “Ci è stato dato un figlio”, canta Isaia. Questo nessuno è
la promessa. Promessa di un cammino da fare insieme.
Forse la storia
di salvezza Giovanni non ce la vuole raccontare, ma ce la vuol far camminare.
Seguendo la gloriosa promessa di Dio raccolta in un fagotto di carne destinato
alla croce.
Buon Natale!
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