Friday, 1 May 2020

Sete di Pasqua

(Inserto Ormegiovani maggio)


Gv 19,25-42; 20,11-18

Gesù è sulla croce. L’evangelista Giovanni, l’unico dei dodici ad avere il coraggio di stare di fronte al maestro nell’ora del supplizio – o forse l’unico senza il cuore di lasciare sola una madre che accompagna il figlio ad essere inchiodato a morte – ci racconta dei dettagli che gli altri evangelisti non ci hanno dato.
Sono tre le frasi che Giovanni sente dire dal maestro. Discepoli di ogni quando e dove hanno sempre avuto la premura di trascrivere le ultime parole dei loro grandi maestri. Di regola imbellendo, aggiungendo, grammaticando, tagliando via i sospiri di troppo e i versi senza senso, soprattutto di chi muore nel sangue.
Invece il pescatore di Cafarnao del suo Maestro trascrive tre frasi che – a prima vista – non sembrano affatto solenni. Della prima (Donna, ecco tuo figlio... figlio ecco tua madre) possiamo dire che è enigmatica. Delle altre due (“Ho sete” e “Tutto è compiuto”) si potrebbe dire che sono così screve di cerimoniosità da essere imbarazzanti. Possibile che il Maestro che aveva affascinato le folle e fatto udire i sordi non avesse di meglio da dire?
Al di là della valutazione estetica, sono le tre parole che il Signore ci lascia. Dopo il testamento che il Signore ha proferito nell’ultima cena, dal capitolo 13 fino al 17, queste tre parole strane e stracce sono il testamento del testamento. Dei poveri mozziconi di legno bruciato con i quali ci vien dato di dare senso all’esecuzione che più di ogni altra esecuzione della storia non aveva senso.

Primeggia per la sua semplicità la parola “Ho sete”. Con queste parole, il figlio di Maria sembra chiudere la sua parabola esistenziale. Alla morte si arriva con il bisogno fisico più elementare, più semplice. È il compimento dell’incarnazione. Nella sua morte non meno che nella nascita lo riconosciamo uomo.
Ma più in là di questo, con la sete, chiude anche il suo ministero colui che era partito da quaranta giorni e quaranta notti di digiuno nel deserto, alla fine dei quali, ci dicono i vangeli, “ebbe fame”. Il ministero di Cristo è inscritto fra la fame e la sete, l’esigenza. Chi lo ricorderà solo per i miracoli lo ha confuso per un messia holliwoodiano, ma Gesù Cristo ci salva con la sua debolezza più che con i miracoli che ci piacciono tanto. Con la sua fame e sete, lui che era canzonato “mangione e beone”, sempre invitato a tavola da peccatori pure affamati di salvezza. La sua fame e la sua sete sono fame e sete di salvezza. Salvezza del mondo.
Mi ha sempre colpito vedere in ognuna delle cappelle delle Missionarie della Carità (“suore di Madre Teresa”) che questa parola – Ho sete – è appesa vicino al crocifisso, in qualsivoglia lingua. Nella sete del patibolo sul Getzemani si riassume la vita di Cristo: la sua incarnazione, il suo messaggio, il suo zelo divorante per la volontà del Padre. Ma si riassume pure la vocazione missionaria, ogni vocazione. Risponde a Dio solo chi sente la sua sete. Non solo; in quelle parole si riassume la storia del mondo, che attende salvezza, non solo la pancia piena, ma senso, dignità, amore.
In queste parole si trova, incredibilmente, anche la speranza. Come un pozzo nel deserto. La sete di Gesù non è un vuoto che consuma, ma una sorgente. “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10).

Così dalla croce Gesù non vuole ricevere, ma dare. Al discepolo amato ed alla madre dona l’un l’altro. Nell’ora dello smarrimento, della morte e della paura, ci dona la comunità. Lo vediamo in questi giorni, in cui il mondo è diventato come una stretta ed affollata zattera di Gericault (e quando il papa dice che siamo tutti sulla stessa barca, intendeva davvero tutti, anche quelli che sono davvero sulle barche...). 


La comunità ci dona la forza della solidarietà nell’ora in cui la disperazione digrigna i denti e fa la sua scommessa sul nostro cuore ferito.
Come se non bastasse, non ci dà “solo” la comunità. Ci dona lo spirito. Lui che muore di asfissia, ci da il soffio, tutto quello che gli rimaneva. Lo stesso alito vitale con cui ci aveva creati. Quella brezza che ci ha trasformato da polvere informe ad immagine di Dio. Muore il Dio della vita, ma la vita non finisce: è trasferita in noi. La vita eterna non è una quantità di tempo, ma la qualità del vivere di Dio. Vivere dando, perchè “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Anche queste sono parole che si sono incarnate di fronte a noi in questi giorni, nel sacrificio di medici, paramedici, volontari, e tanti altri eroi senza piedistalli e senza monumenti che la storia ricorderà in massa, ma che hanno dato la loro vita, se non anche il loro stesso respiro, per salvare altri, sconosciuti.
Ma ancora non basta. Persino da morto il Signore continua a donare, la sorgente non smette di zampillare. Gli viene trafitto il costato, e da questo escono “sangue ed acqua”. I padri della Chiesa vedono qui la nascita della Chiesa, nei sacramenti del battesimo e dell’eucaristia. Ma è anche da notare che Giovanni dice prima “sangue” e poi “acqua”. Perchè Gesù non ci da una vita in astratto. Ci da la sua vita. Dona la vita, per darci Vita. L’acqua che segue il sangue è già il primo fiotto della resurrezione.

E il giardino di Pasqua è irrorato dalle lacrime della Maddalena, che piange. Il Signore le chiede “Donna perchè piangi? Chi cerchi?”. Lei, fra i singhiozzi, non si cura di rispondere a tema, ma avrebbe dovuto confessare che non stava cercando qualcuno, ma un corpo morto. Ed invece ha davanti a sè il Signore della Vita. La scena è talmente lontana da quello che lei cercava, che non si accorge neppure che sta parlando non con il giardiniere del Getzemani, ma con il giardiniere della Genesi. Lui la chiama per nome, e lei torna alla vita. Non è risorto solo Gesù, quel mattino, ma anche Maria di Magdala, che era morta nella sua ricerca di un morto, ed ora si trova a parlare con Dio in un giardino. Vorrebbe fermarsi, ma il Signore la manda. “Va’ dai miei fratelli”. Pasqua non è tempo di fermarsi a trattenere. È tempo di correre. Tempo di dare.

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