(Inserto Ormegiovani maggio)
Gv
19,25-42; 20,11-18
Gesù è sulla
croce. L’evangelista Giovanni, l’unico dei dodici ad avere il coraggio di stare
di fronte al maestro nell’ora del supplizio – o forse l’unico senza il cuore di
lasciare sola una madre che accompagna il figlio ad essere inchiodato a morte –
ci racconta dei dettagli che gli altri evangelisti non ci hanno dato.
Sono tre le frasi
che Giovanni sente dire dal maestro. Discepoli di ogni quando e dove hanno
sempre avuto la premura di trascrivere le ultime parole dei loro grandi
maestri. Di regola imbellendo, aggiungendo, grammaticando, tagliando via i
sospiri di troppo e i versi senza senso, soprattutto di chi muore nel sangue.
Invece il
pescatore di Cafarnao del suo Maestro trascrive tre frasi che – a prima vista –
non sembrano affatto solenni. Della prima (Donna, ecco tuo figlio... figlio
ecco tua madre) possiamo dire che è enigmatica. Delle altre due (“Ho sete” e
“Tutto è compiuto”) si potrebbe dire che sono così screve di cerimoniosità da
essere imbarazzanti. Possibile che il Maestro che aveva affascinato le folle e
fatto udire i sordi non avesse di meglio da dire?
Al di là della
valutazione estetica, sono le tre parole che il Signore ci lascia. Dopo il
testamento che il Signore ha proferito nell’ultima cena, dal capitolo 13 fino
al 17, queste tre parole strane e stracce sono il testamento del testamento.
Dei poveri mozziconi di legno bruciato con i quali ci vien dato di dare senso
all’esecuzione che più di ogni altra esecuzione della storia non aveva senso.
Primeggia per la
sua semplicità la parola “Ho sete”. Con queste parole, il figlio di Maria
sembra chiudere la sua parabola esistenziale. Alla morte si arriva con il
bisogno fisico più elementare, più semplice. È il compimento dell’incarnazione.
Nella sua morte non meno che nella nascita lo riconosciamo uomo.
Ma più in là di
questo, con la sete, chiude anche il suo ministero colui che era partito da
quaranta giorni e quaranta notti di digiuno nel deserto, alla fine dei quali,
ci dicono i vangeli, “ebbe fame”. Il ministero di Cristo è inscritto fra la
fame e la sete, l’esigenza. Chi lo ricorderà solo per i miracoli lo ha confuso
per un messia holliwoodiano, ma Gesù Cristo ci salva con la sua debolezza più
che con i miracoli che ci piacciono tanto. Con la sua fame e sete, lui che era
canzonato “mangione e beone”, sempre invitato a tavola da peccatori pure
affamati di salvezza. La sua fame e la sua sete sono fame e sete di salvezza.
Salvezza del mondo.
Mi ha sempre
colpito vedere in ognuna delle cappelle delle Missionarie della Carità (“suore
di Madre Teresa”) che questa parola – Ho sete – è appesa vicino al crocifisso,
in qualsivoglia lingua. Nella sete del patibolo sul Getzemani si riassume la
vita di Cristo: la sua incarnazione, il suo messaggio, il suo zelo divorante
per la volontà del Padre. Ma si riassume pure la vocazione missionaria, ogni
vocazione. Risponde a Dio solo chi sente la sua sete. Non solo; in quelle
parole si riassume la storia del mondo, che attende salvezza, non solo la
pancia piena, ma senso, dignità, amore.
In queste parole
si trova, incredibilmente, anche la speranza. Come un pozzo nel deserto. La
sete di Gesù non è un vuoto che consuma, ma una sorgente. “Se tu conoscessi il
dono di Dio e chi è colui che ti dice ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene
avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10).
Così dalla croce
Gesù non vuole ricevere, ma dare. Al discepolo amato ed alla madre dona l’un
l’altro. Nell’ora dello smarrimento, della morte e della paura, ci dona la
comunità. Lo vediamo in questi giorni, in cui il mondo è diventato come una
stretta ed affollata zattera di Gericault (e quando il papa dice che siamo
tutti sulla stessa barca, intendeva davvero tutti, anche quelli che sono
davvero sulle barche...).
La comunità ci dona la forza della solidarietà
nell’ora in cui la disperazione digrigna i denti e fa la sua scommessa sul
nostro cuore ferito.
Come se non
bastasse, non ci dà “solo” la comunità. Ci dona lo spirito. Lui che muore di
asfissia, ci da il soffio, tutto quello che gli rimaneva. Lo stesso alito
vitale con cui ci aveva creati. Quella brezza che ci ha trasformato da polvere
informe ad immagine di Dio. Muore il Dio della vita, ma la vita non finisce: è
trasferita in noi. La vita eterna non è una quantità di tempo, ma la qualità
del vivere di Dio. Vivere dando, perchè “c’è più gioia nel dare che nel
ricevere” (At 20,35). Anche queste sono parole che si sono incarnate di
fronte a noi in questi giorni, nel sacrificio di medici, paramedici, volontari,
e tanti altri eroi senza piedistalli e senza monumenti che la storia ricorderà
in massa, ma che hanno dato la loro vita, se non anche il loro stesso respiro,
per salvare altri, sconosciuti.
Ma ancora non
basta. Persino da morto il Signore continua a donare, la sorgente non smette di
zampillare. Gli viene trafitto il costato, e da questo escono “sangue ed
acqua”. I padri della Chiesa vedono qui la nascita della Chiesa, nei sacramenti
del battesimo e dell’eucaristia. Ma è anche da notare che Giovanni dice prima
“sangue” e poi “acqua”. Perchè Gesù non ci da una vita in astratto. Ci da la
sua vita. Dona la vita, per darci Vita. L’acqua che segue il sangue è già
il primo fiotto della resurrezione.
E il giardino di
Pasqua è irrorato dalle lacrime della Maddalena, che piange. Il Signore le
chiede “Donna perchè piangi? Chi cerchi?”. Lei, fra i singhiozzi, non si cura
di rispondere a tema, ma avrebbe dovuto confessare che non stava cercando
qualcuno, ma un corpo morto. Ed invece ha davanti a sè il Signore della Vita.
La scena è talmente lontana da quello che lei cercava, che non si accorge
neppure che sta parlando non con il giardiniere del Getzemani, ma con il
giardiniere della Genesi. Lui la chiama per nome, e lei torna alla vita. Non è
risorto solo Gesù, quel mattino, ma anche Maria di Magdala, che era morta nella
sua ricerca di un morto, ed ora si trova a parlare con Dio in un giardino.
Vorrebbe fermarsi, ma il Signore la manda. “Va’ dai miei fratelli”. Pasqua non
è tempo di fermarsi a trattenere. È tempo di correre. Tempo di dare.
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