(Nigrizia di maggio)
Abbiamo tutti seguito i primi atti di questa
pandemia con una certa indifferenza, se non addirittura con cinismo. Finchè la
pandemia era in un angolo di Cina, ci potevamo premettere il lusso di credere
che fosse lontana. Ma i voli da Pechino a Malpensa sono frequenti e veloci, e
prima ancora che ce ne accorgessimo il virus è arrivato lì da voi in Italia e
in Europa. E ha cominciato a colpire senza pietà.
Inutile per me fare la cronistoria della
quarantena, dapprima cominciata con i congiuntivi, e poi via via impostasi con
forza. Per me comboniano a Khartoum, invece, è interessante vedere come la
gente qui quotidianamente mi chieda come stia “la mia gente” in Italia. In
arabo sudanese ahal “la gente” di qualcuno è la sua famiglia. I mali che
accadono nel mio Paese lontano mi riguardano come mali che accadono alla mia
famiglia. Già questo per me è essere “casa comune”, come papa Francesco ama
chiamare il mondo.
Impossibile fare previsioni su come la pandemia si
evolverà. Qui in Sudan ad oggi conosciamo di “solo” 14 casi ufficiali, eppure
il governo sta già prendendo misure forti. Prima che morisse la prima vittima,
il primo passo è stato chiudere areoporti e confini di mare e di terra. Il
primo passo! Nei paesi che non hanno ancora “imparato” la democrazia occidentale,
le misure sono state comparativamente più drastiche e in tempi più utili. Speriamo
serva. Anzi, speriamo basti, perchè qui in Africa la prevenzione sembra essere
non solo la prima difesa, ma anche l’unica.
La virus è democratico nel senso che colpisce
tutti senza distinguere nazionalità, età, colore e genere. Ma la pandemia sta
mettendo alla luce il forte divario fra una società post-industriale che si può
permettere settimane di quarantena ed un sud del mondo sempre rimasto
pre-industriale dove la gente lavora soprattutto a giornata, sia nelle zone
rurali come anche in quelle urbane. Da queste parti, l’idea di uno shut down
completo per due o tre settimane sta spaventando la gente più del virus stesso.
Non si sa se temere di più l’epidemia in quanto tale, o i suoi effetti
collaterali in campo economico. Il famoso proverbio messicano dice che quando
gli Stati Uniti starnutiscono il Messico prende la polmonite... il problema
oggi è: cosa succede al mondo quando sono gli Stati Uniti ad avere il febbrone?
Un giorno i nostri nipotini studieranno la pagina
di storia in cui si parla dell’epidemia del corona. Avranno alla mano il numero
delle vittime, ma anche un elenco di cose che saranno cambiate. Forse impareranno
che avremo cambiato il modo di salutarci (proveranno imbarazzo al pensiero che
fino al 2020 ci davamo la mano), ma ben altro. Sarà cambiata l’educazione;
mentre finora l’uso dell’online sembrava una fisima degli addetti ai lavori, da
ora in poi passerà non solo come possibile, ma come auspicabile. E in
quest’ottica, la bancarotta di metà campus universitari nel nord del mondo è
stata accellerata di almeno 10 o 15 anni. Sarà cambiato il modo di lavorare, di
viaggiare, di impostare la casa e il tempo in famiglia. E – in un modo che non
sappiamo ancora immaginare – sarà cambiata la Chiesa.
La Chiesa qui in Africa ha risposto in modi
diversi allo sviluppo della pandemia. Fra le scelte più sofferte, come del
resto nelle diocesi di ogni latitudine, la scelta di sospendere le messe e le
attività in generale: scuole, catechesi, servizi sociali, incontri, attività di
ogni tipo. Alcune conferenze episcopali, come quella dello Zambia, hanno preso
questa scelta prima ancora che si parlasse di casi nei loro Paesi. Altre, come
il Kenya o il Sud Sudan, hanno preso la decisione di rimbalzo alle decisioni
delle autorità civili, quando ormai si era capito che la cosa non era un
problema “solo europeo” più di quanto non fosse già stato “solo cinese”. Qui in
Sudan pure siamo arrivati a questa dolorosa scelta – tanto più sofferta per il
fatto che si è imposta nei giorni precedenti a Pasqua.
Al di là del giudizio su queste misure drastiche
(non perchè sia troppo presto, ma perchè non è neppure giusto usare il metro
del giusto e dello sbagliato in momenti di tanta confusione), fa riflettere
quello che queste scelte ha messo in luce della Chiesa in Africa.
Innanzitutto, è venuto alla luce un divario fra la
fede semplice della gente locale che dice “dobbiamo invece pregare insieme di
più, perchè la preghiera ci salva” e il linguaggio dei missionari che invitano
a sospendere le messe per ridurre il rischio di contagio. Si è come verificato
un dialogo fra sordi. Se prendiamo per buono il modello di fede “trasmessa” dai
missionari ai locali (e magari è qua che mi sbaglio), allora vien da chiedersi di
cosa si stia parlando. Mentre i missionari fanno i loro distinguo fra fede e
medicina, buona parte della gente si aspetta che la pratica religiosa funzioni
da scudo. Non è solo una questione di alfabetizzazione, ma di forma fidei.
Nella stragrande maggioranza delle religioni tradizionali africane, fede e
guarigione non sono neppure due cose distinte. La pandemia del Covid 19 rischia
di presentare la fede cristiana come una fede senza guarigione... o una fede
astratta. Qualcuno citerà san Paolo che dice dei Giudei che chiedono segni e dei
Greci che chiedono sapienza. Altre civiltà chiedono guarigione. E noi, come
rispondiamo? La guarigione non è solo il pallino del Milingo di turno. Che risposta
dà il vangelo alla sete africana di guarigione? Come riconciliare la ritirata
fra le mura domestiche con l’assioma di Tertulliano caro salutis cardo
(la carne è il perno della salvezza), per cui la centralità dei sacramenti
poggia sulla loro corporeità e non è data Chiesa lì dove non ci sia comunione
fisica fra persone?
In secondo luogo, viene detto alla gente di
pregare “in casa”. Anche qui, lasciamo ai posteri l’ardua sentenza di valutare
le conseguenze di questo cambio di paradigma. Ma ci è possibile pensare a degli
scenari. Fra i tanti, la possibilità che questa misura produca una spinta al
movimento del disinteressamento, che – nonostante la letteratura romantica di alcuni
missionari ancora ferma all’Africa delle savane – è già presente nelle città africane
da diversi anni. Con l’urbanizzazione e la fine del modello
villaggio/parrocchia, si è innestato nelle giovani generazioni urbane africane un
bel po’ di distacco dalla pratica religiosa. Che sia ora di metterci in
discussione?
Un altro scenario, che non necessariamente esclude
il precedente ma casomai lo completa, è la possibilità che rafforzando la vita
di preghiera in casa si venga a sgonfiare la piramidalità della Chiesa
istituzionale – che pure è un altro white elefant della letteratura
missionaria, che da sempre parla dell’Africano-uomo-di-comunione, e quasi mai
affronta il problema dei vescovi africani che si atteggiano da capotribù. In più,
nella fretta di trovare piattaforme social per far arrivare ai fedeli le messe,
il rosario e la catechesi, si è ben capito che qui in Africa più che altrove il
laicato urbano e i sacerdoti non sono certo sulla stessa pagina. Per dirlo in
soldoni, mentre i giovani africani tengono il passo della rivoluzione
mediatica, il clero locale si muove ancora con canali e ritmi vecchi di
quarant’anni. Anche qui, il divario fra la Chiesa Cattolica e altre
denominazioni pone alla prima non poche sfide. Nell’età del “comunico ergo sum”
la Chiesa non deve chiedersi “a quanti” sia capace di comunicare, ma “cosa”
stia loro comunicando.
La società africana ha fatto molti frog leap
– “salti di rana”, ovvero salti qualitativi senza i passi intermedi che ci sono
stati altrove – in molti ambiti: lo abbiamo visto nel campo telecomunicativo,
sociale, politico, economico. Viene da chiedersi che salto verrà fatto nella Chiesa
e nella missione una volta che questa pandemia sia passata. Viene da chiedersi
se laici e consacrati faranno questo salto insieme, o se i primi lasceranno
indietro i secondi.
Papa Francesco poche settimane prima della
pandemia aveva indetto per il 2022 un sinodo sulla sinodalità della Chiesa.
Chissà come questa stessa parola avrà un significato diverso dopo che avremo
passato questo tunnel. Come ci siederemo al tavolo con gli africani rurali che
abbiamo scandalizzato nel momento dell’epidemia, e con gli africani urbani ai
quali abbiamo lasciato intendere che la messa in streaming è pur sempre messa?
In una forma o nell’altra, il Covid19 rappresenta
un momento di smarrimento, simile all’esilio del popolo di Dio nella terra
senza tempio, senza altare, senza offerta. Paradossale, che il chiudersi in
casa sia esilio. Ma la storia della missione, in Corea come sui monti Nuba o in
Amazzonia, ci insegna che la fede non muore con l’assenza fisica dei preti.
Certo ci sarà una potatura, non solo numerica (ahimè dolorosa), ma
qualitativa. Potatura di tante idee di grandezza, della confidenza nella nostra
forza, nei nostri numeri e nei nostri modelli vecchi. Potatura come la Pasqua:
morte e vita nuova.
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