Saturday, 24 December 2011

il popolo nelle tenebre vide una gran luce

Il Salvatore del mondo bussa alla porta del nostro cuore anche quest’anno nella festa del Natale. Il nostro Dio è sceso dall’Olimpo dove lo tenevamo in gabbia, ed è venuto a scomodarci, a svegliarci dal nostro torpore.
Come i pastori in quella notte di Betlemme, anche noi siamo seduti al buio, senza sapere quando tornerà l’aurora, e senza sapere cosa sono gli echi che sentiamo nella notte. La paura che abita i nostri cuori non conosce latitudine: in Egitto come in Italia, nel cuore del Sudan come nel cuore di ogni terra dove vivono figli e figlie di Adamo, le paure e le domande si rincorrono, fastidiose.
Le parole di Isaia che leggiamo durante la veglia natalizia mi fanno sempre una grande impressione:
Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. … Poiché il giogo che gli pesava e la sbarra sulle sue spalle, il bastone del suo aguzzino tu hai spezzato…Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace…
Quanta speranza in queste parole, quanta luce. Speranza in una storia che cambia, non per le rivoluzioni degli uomini (che, si sa, oggi fanno una rivoluzione, e domani accolgono una nuova dittatura…), ma per la presenza di Dio, un Dio così potente da non avere paura della notte. Un Dio che si fa carne, si fa uomo, si fa bambino, si fa servo. E non teme la notte. Quanto coraggio.
Che il nuovo anno che ci viene incontro sia un anno di coraggio e di speranza. Un anno di pace e di gioia. Che ci possiamo levare in piedi, insieme ai pastori di Betlemme, e sentire il canto: “Gloria a Dio in cielo, e in terra pace ai figli della sua Compassione
Buon Natale a tutti!!

Monday, 5 December 2011

Bellissima… ma le comunità di base?

Appunti veloci sull’esortazione post-sinodale
di Benedetto XVI “Africae Munus”
Africae Munus è l’esortazione che Benedetto XVI ha scritto dopo l’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi per l’Africa. Ci ha impiegato due anni. Il risultato: una lettera piuttosto lunga (soprattutto per papa Benedetto che ci aveva abituato ad una certa brevità), molto profonda e interessante nella sua prima parte, quella propriamente teologica, ma un po’ al di sotto delle aspettative per quanto riguarda la parte più pastorale.

Un documento che ispira

Il grande pregio di questo documento è la carica di speranza e di incoraggiamento che si sente provenire dal papa. Si rivolge alla Chiesa africana con parole di fiducia. Non si stanca di far riferimento alle enormi potenzialità e ricchezze di questo continente. Da questo punto di vista, prende una certa distanza dal modo comune con cui i media ancora presentano questa terra e la sua gente: l’Africa non è solo guerre, fame, malattie e ignoranza, ma è un mondo ricchissimo di tradizioni e di risorse umane e intellettuali. Sì, l’Africa è afflitta da problemi molto seri, ma la sua dignità di “sale della terra e luce del mondo” la chiama con forza a stare in piedi. Il suo posto nel mondo è quello di un polmone. Immagine molto bella, ispirata – mi sembra – al modo in cui Giovanni Paolo II amava chiamare le Chiese Ortodosse.
La sezione cristologica del primo capitolo, che presenta Cristo come sorgente della riconciliazione, della pace e della giustizia, è molto illuminante. Bellissime le pennellate bibliche che Benedetto usa per dipingere la riconciliazione, la pace e la giustizia. Per quanto riguarda la riconciliazione, fa presente come la dimensione verticale della riconciliazione sia in ultima analisi un tutt’uno con quella orizzontale: riconciliazione con il Padre è riconciliazione con il fratello (Lc 15), e questo ha molto da dire in un continente dove l’odio e la violenza mascherata dalla menzogna dell’etnicità sono di fatto un crimine fratricida. Per quanto riguarda la pace, il pontefice sottolinea come la pace di Cristo sia totalmente altra dalla pace “del mondo” (Gv 14). La pace del Crocifisso è pace che parte dal perdono, non dalla vendetta, perché – lo sappiamo – la vendetta non pone mai fine alla catena dell’odio. Infine, la giustizia è rappresentata dal bellissimo episodio di Zaccheo (Lc 19). Come ha già indicato in quel gioiello che è Caritas in veritate, non c’è giustizia senza solidarietà, e mai come in questo tempo di crisi economica globale c’è bisogno di ripensare un modo nuovo di fare economia. In questo nessuno può negare che Benedetto è profeta.


Linguaggio vecchio… e la grande assente: la comunità di base

È proprio perché la prima parte mi piace così tanto che la seconda parte mi lascia un certo amaro in bocca. Ancora una volta, il linguaggio sa di stantio, di categorie antropologiche e teologiche vecchie che hanno bisogno di aria fresca. Non fraintendetemi: non voglio dire che nell’era della comunicazione il papa dovrebbe usare un linguaggio più “attraente”. La questione della forma rispetto al contenuto non è solo una questione di comunicazione, ma è ha un valore teologico. Questo, se mi permettete la parentesi, è chiaro proprio dal vangelo, quando in più di un episodio il narratore non ci dice “cosa” abbia detto Gesù, ma quello che ci sta attorno. Così è in Luca 5, fra il versetto 3 e il 4 e di nuovo al versetto 17, come anche in 24,27. Non è importante quello che Gesù ci dice, ma il fatto che stia camminando con noi e che ci parli. Se quindi diciamo che “lo stile non è acqua” non stiamo facendo una constatazione mediatica, ma un’affermazione teologica: la forma di quello che diciamo vale almeno tanto quanto il contenuto.
Quindi lascia un certo amaro in bocca il leggere fra le righe che il papa si affidi ancora una volta ad una vecchia, superata concezione di “inculturazione”. Ci sono due presupposti del vecchio modo si pensare l’inculturazione che sono sbagliati, o quantomeno profondamente discutibili. Innanzitutto, l’idea che si possa parlare di “culture” come di realtà statiche e che non si confondono, ci limita a fare del processo di inculturazione un lavoro di laboratorio (se non da museo), mentre fuori – ovvero nel XXI secolo – esiste quel processo devastante che si chiama “globalizzazione”. In un modo in cui ogni anno si perdono 25 lingue indigene, come si può continuare a parlare di “culture” nel vecchio senso del termine? La verità è che le culture non sono realtà, ma dinamiche.
In secondo luogo, il papa (ma con lui il sinodo stesso), cade nell’impressione che l’inculturazione sia un processo conscio. Questa è un’illusione che non riconosce che nelle terre di lunga tradizione cristiana l’inculturazione ha sempre impiegato secoli. Ricordiamoci che l’evangelizzazione dell’Europa l’hanno fatta i benedettini.
Sul piano ecclesiale, è davvero forte il punto di domanda che martella la mente di chi legge una volta che, ancora, si presentano i diversi elementi della Chiesa nel vecchio ordine: i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, i diaconi… e i laici son lasciati per ultimi. Non c’è neppure bisogno di dire come questo approccio non rispecchi la traiettoria data dal Concilio Vaticano II. Se la leadership nella Chiesa è una questione di servizio e non di potere, perché abbiamo paura di mettere i vescovi per ultimi?
Ma quello che più pesa è la completa assenza delle comunità di base. Per amor di precisione, l’espressione “piccole comunità cristiane” appare un paio di volte, ma sinceramente sembra sia semplicemente un modo fra i tanti di fare pastorale. Anche qui mi chiedo se siamo nel XXI secolo o se ci siamo rinchiusi in un museo. Fa bene il papa ad invitare ad una rinnovata pastorale biblica, e alla lettura quotidiana della Parola nelle famiglie. Ma come si potrà mai attuare tutto questo se non attraverso le comunità di base? È ora che la Chiesa in Africa faccia un’opzione preferenziale per le comunità di base. Dal punto di vista teologico e pastorale. Altrimenti, il modello della Chiesa come Famiglia, tanto caro al primo sinodo africano, rimarrà lettera morta.




Chiedo scusa se il linguaggio può essere sembrato forte, o addirittura irriverente. In realtà l’esortazione Africae Munus merita molto di più di queste poche righe. È un documento frutto di un lungo lavoro, e dai numerosissimi spunti di riflessione. Ho tralasciato un sacco di dettagli e ho voluto accennare solo le poche cose che mi sembravano più interessanti. Lo scopo di queste poche righe, da parte mia, è solo quello di invitare ad una riflessione.
Apriamo un dibattito sulle comunità di base in Africa?
diegomccj@gmai.com

Thursday, 7 July 2011

Aspettando

Tempo di trepidazione, in Sudan, e per chi se ne sta a guardare dallo spioncino della porta.
Sono al Cairo in attesa del visto per il Sudan, un’attesa che ormai si prolunga da qualche settimana. La mia attesa contribuisce al senso di impotenza e di inutilità che uno prova mentre legge giorno dopo giorno quello che sta succedendo nel Sud Kordofan, una regione esattamente nel cuore del vecchio Sudan, la regione dei Monti Nuba.
Il Sud Sudan si dichiarerà indipendente sabato 9 luglio a mezzogiorno. L’attesa ormai è agli ultimi sgoccioli. È stata un’attesa lunga, e ora l’euforia al Sud si fa sentire. Sarà un grande giorno, un giorno per cui molti si sono battuti e che molti hanno sognato senza mai poter vedere. Ma un giorno che rappresenta un inizio più che una fine. Per il Sud Sudan, per il Nord Sudan, e per chi sta nel mezzo.

Per il Sud Sudan la sfida è quella di costruire un Paese partendo – passatemi l’espressione “da zero”. Con tutto il rispetto per il potenziale umano e sociale del Sud Sudan, rimane pur vero che è un Paese che deve costruire molto. Non solo infrastrutture – un Paese grande come la Francia che ha solo 50 (cinquanta!) km di strade asfaltate ­–, ma anche e soprattutto una classe di leaders e un senso di unità nazionale. Il rischio è quello di dividersi sulla base delle tribù, e che si inneschi la lotta al potere da parte di ognuna.

Il Nord Sudan ovviamente esce dalla vicenda dell’indipendenza del Sud come uno sconfitto. Alla faccia della Lega Araba, il governo di Khartum è accusato di aver perso un terzo del Paese. In realtà il regime ora rischia di perdere anche molto di più. Se non altro, ha già perso molta della sua (poca) popolarità. E se ci aggiungiamo la primavera della democrazia nei vicini Paesi Arabi…

Il Sud Kordofan (Monti Nuba) è la fetta di Sudan che sta in mezzo al Nord e al Sud. Qui oggi si consumano le tragedie più atroci nei Paesi Arabi. Con tutto il rispetto per i morti in Libia e in Siria, ma – si sa – quando a morire sono i neri nessuno in Occidente sembra scomporsi più di tanto. Come è successo in Ruanda e in Darfur, il massimo che l’Occidente si permette di fare è versare lacrime di coccodrillo e gridare al genocidio. Dopo che si è consumato, ovviamente.
C’erano accordi fra il Nord e il Sud per cui il Sud Kordofan avrebbe dovuto fare un referendum locale per decidere se passare con il Sud o rimanere con il Nord. Il referendum, che si doveva fare in marzo-aprile, non è mai stato fatto. Sono invece state fatte le elezioni amministrative, dove – sorpresa! – ha vinto il partito del governo di Khartum. Risultato: il nuovo governatore del Sud Kordofan è Ahmed Haroun, che insieme ad Al-Bashir, è nella lista dei ricercati della Corte Criminale Internazionale dell’Aia per i crimini contro l’umanità perpetrati in Darfur. È come avere un Milosevic che non solo è a piede libero, ma è ancora un pezzo grosso della politica del suo Paese. Cose dell’altro mondo.
Il 6 giugno il Nord ha cominciato un’operazione militare sui Monti Nuba. I bombardamenti si susseguono quasi quotidianamente. I lavoratori di ONG e altre organizzazioni internazionali parlano di pulizia etnica. Praticamente, si sta ripetendo il copione del Darfur: per far fuori 100 ribelli, vengono uccisi migliaia e  migliaia di persone e bruciati i loro villaggi.

Tempo di attesa in Sudan. In entrambi i Sudan.
Attesa dove la speranza si mescola in malo modo con il dolore.
Speranza e paura.

Monday, 9 May 2011

Un'altra chiesa in fiamme, e altri morti... fino a quando?

Rabbia, rabbia, rabbia. Sabato scorso ci sono stati scontri a Imbaba, quartiere popolare (e molto popolato) del Cairo. Il pretesto, come non bastasse la stupidità è la disputa sulla presunta detenzione di una copta che si sarebbe convertita all'Islam. Sui dettagli di come e quando questa si sia convertita, non ce ne sono due che possano dare lo stesso resoconto dei fatti... come sempre le chiacchiere sono innumerevoli, qui in Egitto. Gli animi si scaldano, e scatta lo scontro fra gruppi di Salafiti (movimento fondamentalista musulmano che sta cercando di alzare la voce nello scenario politico dell'Egitto post-Mubarak) e cristiani copti. Una chiesa copta è presa di mira. Fra i cristiani che la difendono c'è anche un cattolico, papà di un nostro seminarista comboniano. Alcuna gente entra nella chiesa con armi, spara, e lui muore. Durante la notte la chiesa è data alle fiamme.
A due giorni dagli eventi, il numero di morti è di almeno 10, ma altri si trovano gravi all'ospedale.
C'è tanta rabbia, e voglia di vendetta. Il Governo dice che userà la mano di piombo, e dice di aver arrestato già 190 persone, ma anche sugli arresti si sentono voci discordanti...
Io capisco, e sono il primo a dire, che la maggioranza dei Musulmani è contraria alla violenza. Ma fino a quando questa stessa maggioranza se ne starà con le mani in tasca, a guardare? Fino a quando si continuerà a dire che l'Islam non ha niente a che fare, che questi sono episodi di piccoli gruppi di minoranza? Se non interviene la maggioranza delle persone di buona volontà, da chi dobbiamo aspettare un aiuto?

Saturday, 23 April 2011

sotto il cielo della Pasqua


Pasqua 2011

La situazione qui stenta a sistemarsi, visto che dietro la calma apparente del post-rivoluzione si nascondono un sacco di problemi irrisolti. Il Paese è in fermento, e diversi gruppi politici vogliono fare di tutto per assicurarsi una vittoria alla prossime elezioni di settembre. Il quadro generale è molto confuso: sappiamo da dove veniamo, ma facciamo fatica a capire dove siamo e – soprattutto – dove stiamo andando. La tensione fra cristiani e musulmani si sente con forza, e a questa si aggiunge un certo conflitto all’interno del mondo musulmano stesso, fra chi crede nel bisogno di una svolta in favore dei diritti umani e chi invece vorrebbe uno stato teocratico (e in mezzo a questi due gruppi si trovano tutte le gradazioni intermedie). L’esercito continua a tenere in mano il potere, e lo fa con il pugno di ferro (speriamo non ci prenda gusto).
In questi giorni celebriamo la Pasqua, il cammino più incredibile che si possa mai intraprendere: quello dalla gloria alla croce, e poi dalla croce ad una gloria più grande, una luce che non possiamo descrivere.
Il cielo delle notti di pasqua è costellato di punti di domanda, che non trovano risposta nel buio… è un cielo freddo, senza nuvole. E i punti di domanda che troviamo nelle pagine del vangelo in questi giorni sono gli stessi interrogativi che ci poniamo tante volte noi, nelle nostre vite fatte di contraddizioni e di continui tentativi, dove raramente incontriamo risposte.
Perché il dolore, se siamo figli dell’Altissimo? Perché se siamo tutti discendenti dallo stesso Padre celeste, c’è chi nasce in un Paese ricco di risorse e chi in un Paese afflitto da ingiustizie e violenza? Perché qui in Egitto, dopo tanto dolore, e l’impegno genuino e onesto di tanti, non torna la pace? Perché chi semina discordia e violenza sembra non essere mai stanco, non morire mai, non essere mai a corto di occasioni?
Perché il Signore non interviene, con la bacchetta magica? No, niente bacchetta magica, il Signore affronta i problemi con un altro tipo di legno, uno strumento molto più pesante e duro: la croce. E la sua risposta alle nostre domande, ancora una volta, è una domanda essa stessa… È davvero misterioso questo cammino. Così misterioso che ci sembra di camminare nel buio, a tentoni… Dalla gloria alla croce, e dal sepolcro alla Gloria…
Difficile da capire, ma ancor più difficile da interpretare. Come per Pietro, che prima non capisce perché il Maestro gli voglia lavare i piedi, e poi, quando capisce, comincia a declamare i suoi buoni propositi. Ma – si sa – di buoni propositi è lastricata la strada che porta alla perdizione. Sarebbe stato meglio parlare meno, rendersi conto dei propri limiti, e chiedere aiuto. Perché alla fin fine l’unica preghiera di cui abbiamo bisogno è quella dei discepoli impauriti: “Signore, salvaci!”. Abbiamo bisogno di abbandonarci con fiducia alle sue mani, visto che da soli non riusciamo a venirne a capo.




Salvaci, Signore, da noi stessi, dalla nostra ipocrisia. Affolliamo la chiesa la notte di Venerdì Santo, ma sotto la tua croce, quel giorno, non ci saremmo fatti trovare. Salvaci, Signore, dalla nostra arroganza. Salvaci dall’indifferenza. Salvaci dal buonsenso. Salvaci dal senso della misura. Salvaci dai compromessi. Perché il cammino che ci offri tu è un cammino molto dolce, ma che ci chiede di ingoiare una medicina molto amara che non vogliamo prendere.

Buona Pasqua a tutti. Buona Pasqua di morte e di Risurrezione.

Sunday, 13 February 2011

Piazza dei Miracoli


La settimana fra il 5 e l’11 febbraio è stata una settimana carica di una stranezza davvero bella. La stranezza di un seme che a fatica si fa strada nella terra e porta un filo di verde a germogliare. La stranezza di quell’ultima goccia che rompe la lastra di marmo.

Dopo il “venerdì della partenza”, il 6 febbraio si celebra il “giorno della solidarietà”. Qui in Egitto la protesta si mette per un giorno in stand-by, mentre a dire il vero è il mondo che fa “stands by”, sta vicino, all’Egitto. Da ogni angolo del mondo egiziani della diaspora e altri uomini e donne scendono in piazza per fare coraggio ai manifestanti dell’Egitto.

Domenica 7 è il “giorno dei martiri”. Si fa memoria di chi ha perso la vita negli scontri con la polizia e nelle due notti di sassaiola in piazza Tahrir. In tarda mattinata anche i Cristiani pregano in piazza Tahrir per pregare, come il venerdì precedente avevano fatto i musulmani. La croce e il corano sono i due simboli di un Egitto che accetta la pluralità di fedi. Il popolo di piazza Tahrir è un popolo che non si spaventa delle diversità. È festa.

C’è chi decide di scendere in piazza Tahrir per celebrare matrimoni, per far festa. Ormai il popolo della piazza non è una massa indistinta di gente, ma un movimento con una sua identità, con un progetto. E da questo nasce qualcosa che, personalmente, non mi aspettavo.

Credevo che alla lunga sarebbe stato il faraone a vincere il braccio di ferro, mentre invece il passare dei giorni fa vedere che il movimento non perde vigore, ma anzi ne guadagna. Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì: lo sciopero generale si fa via via più forte, più convinto. Il ricordo delle sassaiole, degli scontri con la polizia, delle cariche di gente inferocita e armata sembrano cose lontanissime.

Giovedì sembra essere il giorno finale. Viene annunciato che nella sera il presidente farà un discorso. Voci da Aljazeera e dalla CNN dicono che probabilmente si sta dimettendo. Poco prima delle undici, il faraone fa il suo discorso…
Carico di arroganza, peggio ancora di quello che aveva detto una settimana prima. Parla di se stesso come se avesse combattuto lui da solo la guerra del Sinai nel 73. “Abbiamo fatto sempre quello che ritenevamo giusto, e non c’è nessuno che possa venirci a dire cosa fare”. Incredibile.
Quello che è ancora più incredibile, non solo per me, è il miracolo della reazione non violenta della gente. C’è tantissima rabbia nelle piazze quella notte fra giovedì e venerdì, eppure la gente se ne torna a casa. Molti rimangono in piazza Tahrir: non si vogliono fermare ora!!

Venerdì 11 dopo la preghiera di mezzogiorno si riversano sulle strade tantissime persone. Il clima è di festa. In piazza fra le tende si legge “il mio indirizzo è piazza Tahrir, finchè non se ne va”. Io e alcuni miei confratelli andiamo pure in piazza Tahrir. La calca è talmente forte che l’esercito non ce la fa a controllare tutti quelli che entrano, così l’organizzazione della protesta si è auto organizzata per controllare che chi entra non abbia con se coltelli o armi. Tre cordoni di uomini perquisiscono chiunque entri da qualsiasi strada. In piazza ci si muove a stento. Il clima è un mix stranissimo di rabbia e speranza. Difficile dire quanti siamo in piazza, ma a colpo d’occhio mai nei precedenti 17 giorni tanta gente era scesa in strada. Diverse centinaia di migliaia di persone si affollano dentro e attorno piazza Tahrir, mentre un altro fiume di gente si dirige verso il palazzo presidenziale, dove in mattinata l’esercito ha rinforzato la sua cinta di protezione…

La sera alle 5 gli eventi prendono una nuova piega: viene annunciato che il presidente ha lasciato il palazzo e che presto dal palazzo stesso verrà rilasciato un nuovo comunicato. Alle 5.55 Aljazeera fa sapere che il segretario del Partito Nazionale si è dimesso. Alle 6 in punto la tv di Stato interrompe i programmi. Parla il vicepresidente, che in 31 secondi annuncia quello che tutti aspettavano ormai da decenni. Il presidente si è dimesso e ha lasciato in mano al consiglio supremo delle forze armate il controllo del Paese.

La gioia esplode. Tutti in strada a far festa. Quelli, come me e i miei confratelli, che erano appena tornati dalla piazza Tahrir ci ritornano. Molti altri vengono a piedi. È un susseguirsi di canti, grida di gioia. Gente che stringe la mano ai soldati, che hanno permesso che questa settimana non fosse segnata da un assurdo spargimento di sangue. Clacson di auto e moto. Bandiere ovunque. Il Paese intero è fuori a gridare di gioia!!!!!!!!!!!!!!!

Gelsomino Egiziano


Domenica 23 un’amica che incontro sempre alla messa in inglese mi dice di stare a casa il martedì seguente. “Vogliono che si ripeta qui in Egitto quello che è accaduto in Tunisia”. Nelle ultime settimane qui in Egitto abbiamo assistito ad una serie di giovani che si sono suicidati: disoccupati in preda alla disperazione. Effettivamente era cominciato così anche in Tunisia…

Martedì 25 – Giovedì 27 gennaio: il popolo vuole democrazia!
La protesta è cominciata in modo abbastanza pacifico. Alcuni di noi studenti a scuola ripetono, scherzando, gli slogan dei manifestanti: assha’b yurìd isqàt annithàm, “il popolo vuole il crollo del sistema”. Ma alcuni professori ci fanno notare che non abbiamo nessuna ragione di fare nostre queste parole: la protesta è una cosa egiziana, loro.
Il clima si appesantisce nella tarda mattinata di giovedì quando ci si rende conto che la protesta del giorno dopo sarebbe stata molto più grande. Nei paesi mussulmani la preghiera del mezzogiorno del venerdì è molto sentita, e ogni protesta che venga fatta dopo la preghiera del venerdì a mezzogiorno è sempre un evento carico di partecipazione, non solo numerica. Il direttore della nostra scuola decide di sospendere le lezioni.
Nella preghiera mi chiedo perché uno debba scendere in piazza. Mi vengono in mente le parole che qualche anno fa mi disse Stefano “quando la gente in un villaggio scava un pozzo, non sta cercando solo acqua: sta cercando Dio”. La rivoluzione non è che l’espressione di un desiderio che ci accomuna tutti. Tutti cerchiamo una vita più autentica, più dignitosa, più felice. E ci sono momenti nella storia in cui bisogna prendere in mano la propria esistenza e giocarla. Con coraggio.

Venerdì 28 gennaio: dies irae
Internet è oscurato in tutto l’Egitto, e così pure tutte le linee telefoniche dei cellulari vengono chiuse poco dopo le 9.
Nel pomeriggio vado a vedere cosa succeda in piazza Tahrir. Come esco di casa sento un bruciore al naso e agli occhi: i lacrimogeni che stanno lanciando nella piazza Tahrir si fanno sentire anche qui, a più di due chilometri di distanza. Arrivati al Tahrir, vediamo che la tensione sta salendo. La polizia continua a sparare lacrimogeni. Nel corso delle ore i manifestanti si fanno via via più intolleranti e reagiscono. Vengono bruciate camionette della polizia. Di fronte alla nostra casa in via Ramses alcuni poliziotti sono circondati: i più fortunati scappano su alcune camionette; altri, rimasti a piedi, depongono armi e uniformi e se la danno a gambe.
In serata arrivano a piazza Tahrir e negli altri posti centrali del Cairo (la Corniche e Ramses) i militari. I manifestanti li accolgono con gioia.

Sabato 29 gennaio: notte di paura
Ci svegliamo la mattina di sabato per renderci conto che non c’è più polizia per le strade.
Le proteste continuano. L’esercito non assume un comportamento violento come aveva fatto la polizia ieri, quindi la giornata prosegue abbastanza pacificamente.
La notte M. annuncia di aver sciolto tutto il governo.
Ci si organizza spontaneamente fra vicini a fare la ronda. Si spande la voce che diverse prigioni siano state abbandonate dalle forze di sicurezza. Per tutta la notte si susseguono atti di vandalismo e di violenza in tutta Cairo. Qui nel nostro quartiere solo qualche negozio è saccheggiato o dato alle fiamme.


Domenica 30 gennaio: mostrando i muscoli
La protesta continua. Nel pomeriggio due caccia volano molto bassi sul centro del Cairo. Il regime mostra i muscoli.
M. nomina il capo dei servizi segreti suo vice, carica che per trent’anni non era neppure esistita. Ci convinciamo tutti che il regime abbia le ore contate.
Seconda notte senza la polizia per le strade; solo qualche posto di blocco dell’esercito agli incroci principali.
A questo punto mi sembra molto chiara la strategia di M.: invece di fermare la rivoluzione in un bagno di sangue, preferisce fiaccarla. Il Paese è fermo. La fame fermerà le proteste. Meglio trascinare nel baratro 80 milioni di persone piuttosto che fare quello che il buonsenso comanda…

Lunedì 31 gennaio: ritorno alla normalità?
Piano piano la polizia torna per le strade. Alcuni poliziotti tornano, ma in borghese, non so se per paura di essere riconosciuti, o per il fatto che diverse delle loro caserme sono state date alle fiamme (e quindi sono a corto di uniformi, armi e altri mezzi). La gente comunque li accoglie molto volentieri, visto che il panico delle ultime 48 ore è stato un incubo che nessuno vuole rivivere. In molti quartieri popolari il vandalismo e lo sciacallaggio sono ancora molto forti. Alcuni negozi tornano a lavorare. Ma la ressa ai supermercati per comprare provviste è impressionante.

Martedì 1 febbraio: grande protesta pacifica
Centinaia di migliaia di persone protestano, in modo molto pacifico. C’è chi perquisisce all’ingresso della piazza. Il morale è altissimo e la speranza di farcela è tanta.
La notte, M. fa un altro discorso. Annuncia che non si candiderà alle prossime elezioni presidenziali, né presenterà il figlio. Le sue parole fanno leva sul sentimento patriottico, e vincono l’appoggio di chi aveva combattuto la guerra del 73 (quella contro Israele)…

Mercoledì 2 febbraio: scontri fra egiziani
La gente è divisa. C’è chi accetta le parole di M. come un armistizio, dicendo che il Paese non può reggere altri giorni di chaos, e chi invece sostiene che M. se ne deve andare subito.
In mattinata torna l’internet, il che permette anche alle banche di riaprire. Credo si voglia far credere che la situazione sta tornando alla normalità…
Nel pomeriggio, come per magia, si materializza un’immensa manifestazione a sostegno di M. Incredibile ma vero, decine di migliaia di persone scendo in strada per dire che il suo discorso ha risolto tutto. Camminando per le vie del centro mi chiedo come sia possibile che la folla che fino a ieri gridava “Crucifige”, ora canti “Osanna”… sembra uno scherzo il fatto che lo slogan dei manifestanti si sia rivoltato come un calzino: asshà’b yurìd mubàrak arraìs!, “il popolo vuole M. presidente!”. Noto che le foto che portano sembrano appena stampate, e i loro striscioni non sono fatti “artigianalmente”, ma sono plastificati.
In piazza Tahrir scoppiano gli scontri fra i pro-M. e i contro-M., che rimangono circondati. I manifestanti a favore di M. sono chiaramente in superiorità numerica, e si sono portati appresso coltelli e sassi.
Quella che nel pomeriggio mi era sembrata la “manifestazione finale”, non è altro che un colpo di scena che sembra ri-aprire il gioco. A questo punto l’unica cosa che mi pare di poter capire è che ogni giorno gli elementi imprevedibili superano quelli prevedibili: è ormai una settimana che ogni giorno succede qualcosa che nessuno (o quasi) si sarebbe aspettato. Meglio non farsi previsioni, allora.
Per tutta la notte in piazza Tahrir i due gruppi si lanciano addosso sassi e molotov.

Giovedì 3 febbraio: caccia al giornalista
La notte di violenza fra i pro-M. e i contro-M. accresce la tensione. Molti che solo 24 ore prima si erano fatti convincere dalle parole del rais ora tornano a criticarlo perché l’esercito non è intervenuto a fermare gli scontri fra i due gruppi.
Le agenzie internazionali parlano del gruppo anti-M. come di un gruppetto di eroi, di martiri, ma mi sembra che le cose siano ben più complesse. È vero che fra i pro-M. ci sono diversi della polizia segreta (del resto, come spiegarsi tutte le loro armi?), ma è anche vero che fra quelli che sono contrari al regime si nascondono i Fratelli Musulmani, che non hanno niente da perdere, o che –meglio – ora non possono più tornare indietro: si sono esposti troppo per accettare che M. resti su altri 6 mesi…
Gli oppositori sono sotto assedio in piazza Tahrir. L’esercito non interviene, mentre egiziani prendono a sassate e bastonate altri egiziani. Ancora una volta, l’indifferenza prova di essere una presa di posizione: se non la più violenta, sicuramente la più cinica. Cibo e medicine che qualcuno stava portando agli assediati in piazza vengono buttati nel Nilo.
Il movimento in favore del governo comincia a prendere di mira giornalisti, stranieri e non solo. Cresce la paura: qua non si parla solo di sequestro delle macchine fotografiche, ma di veri a propri pestaggi, con tanto di accoltellate…

Venerdì 4 febbraio: “giorno della partenza” (?)
Nelle intenzioni delle opposizioni, la giornata di oggi dovrebbe essere il grande giorno della partenza di M. È venerdì, quindi aspettiamo di vedere cosa succede dopo la preghiera di mezzogiorno. Verso le 2 del pomeriggio sento da casa la folla dei pro-M. che si dirige verso il Tahrir, dove gli oppositori al regime sono sotto assedio da tre giorni.
Mentre cala la notte è chiaro che gli oppositori al regime sono di gran lunga più numerosi dei sostenitori. Le agenzie parlano di 3 forse 4 milioni di manifestanti contro il regime in tutto l’Egitto, mentre i pro-M. sono ridotti a poche migliaia. Non mancano gli scontri, ma l’esercito tiene il secondo gruppo fuori dalla piazza Tahrir.
Se da domenica a martedì m’ero convinto che M. potesse vincere il braccio di ferro che ha voluto fare contro il suo stesso paese, ora ho l’impressione che – forse – il movimento per la democrazia sia molto deciso ad andare avanti.
Aspettiamo l’evolversi degli eventi,
accompagniamo con la preghiera.