(Ormegiovani, dic 2015)
Dopo anni di attesa, finalmente scrivo dal Sudan, la “terra promessa”!!!!!
Sono qui da tre settimane. Per me sono
settimane di grande entusiasmo, visto che sono tornato in una terra tanto amata
da Comboni e tanto cara anche a me. Come disse San Daniele Comboni nella sua
famosissima omelia di Khartum, tornando qui ritrovo il mio cuore, mi sento a
casa. C’é un senso di appartenenza a questa terra che difficilmente riesco a descrivere
e sicuramente non riesco a spiegare; forse é un innamoramento.
Nel suo
famosissimo libro “Il profeta”, Gibran scrisse che quando amiamo non dovremmo
dire che abbiamo Dio nel cuore, ma piuttosto che siamo noi ad essere nel cuore
di Dio. Dio diventa cosi’ la nostra casa, la nostra terra, la nostra dimora. In
un modo simile, anche la bibbia chiama numerose volte Dio come “la
porzione di terra” di chi lo serve. C'è un senso di appartenenza al
contrario, quando si parla del regno di Dio: non è lui che appartiene a noi,
ma noi che apparteniamo a lui.
L'illusione degli imperatorucci
I grandi della
terra questo non lo capiscono. Augusto imperatore che ordina il censimento
degli abitanti del suo impero si inserisce in un’infelice tradizione di potenti
maledetti dalla loro stessa cieca logica di potere. Contare i figli è peccato
in molte antropologie africane, perché la vita è dono di Dio, e contare i
figli - o la gente - è come voler misurare la generosità e la sapienza di chi
ce li ha donati. Un peccato di superbia, una riedizione del primo peccato,
in cui l'uomo e la donna si son messi a sostituire Dio.
Agli occhi di
Dio, questi scimmiottamenti dei potenti sono ridicoli (v. salmo 2), perché sono
pateticamente illusori.
Purtroppo, questo
stesso atteggiamento lo assumiamo noi tutti, compresi io che sto scrivendo e tu
che stai leggendo. Non solo ogni volta che pensiamo al mondo come ad una
partita di Risiko o di Monopoli, ma ancor di più ogni volta che ci arroghiamo il diritto
di avere soluzioni in tasca (chissà come mai, ma abbiamo sempre soluzioni
semplici a problemi complessi, e non ci sorprende il fatto che siamo gli
unici ad avere tali illuminazioni). Ci pensiamo grandi e onnipotenti,
onniscenti, quando invece facciamo fatica a capire e governare quello che ci
portiamo nel cuore. L'arroganza di chi comanda o crede di comandare è superata
solo da l'ingenuità di chi vorrebbe comandare e cambiare la storia a suo
piacimento.
L'accoglienza dei semplici
Chi guarda la
storia dalla periferia, invece, ha molte meno pretese, e ci vede meglio. I
pastori di Betlemme vedono molto più in là del loro naso quando l'angelo porta
loro la buona notizia. La buona notizia non è solo per loro, ma per tutti.
Infatti l’angelo della notte di natale proclama: “Vi annuncio una grande gioia,
che sara’ di tutto il popolo”. C'è qualcosa di profondo in questa nota
dell'annuncio natalizio: la gioia non è tale se non é condivisa. È
categoricamente impossibile la gioia da soli. Questo i potenti e chi vorrebbe
essere come loro non riescono mai a capirlo. Da una parte il giovane ricco che
cerca di “possedere” la vita eterna, Davide che mentre i suoi soldati lottano
se ne sta solo e ozioso nel suo palazzo, il figlio prodigo che cerca di farsi
la “sua” vita con i “suoi” beni, la samaritana che se ne va al pozzo quando
nessuno dovrebbe incontrarla, etc.; dall'altra parte, invece, i poveri in
spirito che accolgono la buona novella: il ladrone che si accontenta di una
parola di bontà, Abramo che si abbandona alla promessa di una voce misteriosa
nella notte, Maria che si lascia trasformare da un messaggio bizzarro.
Poveraccio è chi cerca la propria felicità nei suoi piani; povero in spirito è
chi si lascia sorpendere e sprogrammare dallo sconosciuto.
La casa della gioia
A coronare la
storia della natività troviamo Maria, che conserva e medita tutte quelle cose
nel suo cuore. Lei che è stata per nove mesi l'arca della nuova alleanza nel
suo corpo, continua la sua missione conservando il miracolo del dio-uomo nel
suo cuore. La sua accoglienza della presenza di Dio ricorda tanto quella dei
pastori che si sono precipitati a Betlemme per vedere l'accaduto, ma è ancor
più profonda. Il silenzio non le si impone: è lei stessa a sceglierlo. Il
silenzio, non accade, non “si osserva” come se fosse un incidente: lo si
sceglie, lo si celebra. Davanti alla Parola fatta carne, Maria non se la sente
di aggiungere altro.
Personalmente,
in queste mie primissime settimane in Sudan mi colpiscono la calma e il silenzio
della gente. Verrebbe quasi da dire che più che in altri Paesi qui l'incontro è
fatto più di sguardi e strette di mano e un po’ meno di parole. La presenza è
in sé il messaggio, e il silenzio ne potenzia la capacità di ascolto. Il
silenzio diventa segno di profondita’ e dignita’, piu’ di tante altre parole,
che lasciano il tempo che trovano.
Mentre ci
avviciniamo alla festa dell’incarnazione dell’uomo-dio, il mio augurio é che
impariamo tutti ad ascoltare un po’ di piu’, e a fare spazio a quell’unica
Parola che cambia il mondo. La parola creatrice che ci trasforma, perché per la
prima volta ci mette a nudo con noi stessi. Auguro a tutti, allora, e a me
stesso per primo, di imparare a riempire il nostro silenzio d’ascolto con il
sorriso dell’accoglienza, e della speranza. Quello stesso sorriso che incontro
in tante, tantissime persone in questo Paese amato. Lo stesso sorriso della
madre che accoglie fra le sue braccia il figlio appena nato.