(inserto di Ormegiovani, febbraio 2016)
Nelle situazioni
estreme viene fuori quello che ognuno si porta dentro. Quando la violenza e la
paura sono forti e la morte incombe minacciosa, non ci sono spazi per i
meccanismi di difesa, non c’è tempo per le parole di convenienza, per le
maschere, per le finte. L’urgenza ci spoglia delle nostre falsità e rivela
quello che siamo sempre stati. Quello che abbiamo coltivato nel fondo del
nostro cuore da anni, e che abbiamo fatto tacere per così tanto tempo di cui –
a volte – noi stessi ci siamo scordati.
La passione di
Gesù non è stata un’eccezione a questo. Mentre molti, sia fra i suoi seguaci
che fra i suoi nemici, si aspettavano miracoli e colpi di scena, Gesù si è
lasciato ammazzare. Spogliato, malmenato, inchiodato, deriso, offeso, muore una
morte ignominiosa. Vergognosa. Muore da maledetto, e la scena deve essere stata
così deplorevole da suscitare, in chi guardava, quel senso di ripugnanza che
porta a dire: “Se la dev’essere cercata, e adesso la paga!” Infatti, a volte
succede che impariamo ad odiare le persone che non ci piacciono. Anche se in un
primo momento abbiamo visto in loro le vittime, c’è un momento in cui il
disprezzo diventa odio, e allora giustifichiamo nella nostra mente fredda e
senza spirito l’atrocità che si sta consumando di fronte a noi. Succede quando
diventiamo indifferenti alla guerra, quando impariamo a tirare dritto di fronte
a chi soffre, quando ci prendiamo persino il lusso di essere cinici sul dolore
di altri. Come quando a scuola il maestro pensa che l’alunno poco brillante sia
necessarimente cattivo.
Eppure il
racconto della morte di Gesù non è l’ultima parola. La disperazione e la paura
non sono invincibili, ma nel mezzo del buio stesso brilla una luce di vita, una
fiammella tenue e delicata che finisce per travolgere tutti.
Vince la
vita nel silenzioso aiuto del Cireneo. Mi ha sempre interessato questa figura, che a
quanto ne so non è mai salita agli onori degli altari. I vangeli non ci dicono
se Simone dopo essersi caricato di quella croce di malavoglia (costretto dai
soldati) si sia accorto del privilegio che aveva ad accompagnare il salvatore
del mondo. Ma nel silenzio di Simone di Cirene si coglie la silenziosa fede di
molti che non parlano e non fanno parlare di se, eppure sono degli eroi. Qui in
Sudan, ma ovunque nel mondo, se ne incontrano molti: persone semplici che senza
suonare la tromba portano avanti la vita dei loro figli e dei loro cari. E che
trovano la forza di sorridere.
Vince la
vita nel ladrone che appeso alla croce si affida alla misericordia di Gesù. “Ricordati di me”. Forse il dolore di
tanti che finiscono in prigione o ai margini della società sta nel fatto che
nessuno si ricordi di loro: nessuno li porta nel cuore.
Allora lo sguardo compassionevole, e la promessa di un posto in paradiso, sono
la vittoria della vita. Prima ancora che la morte venga a presentare il conto.
Bellissimo che Gesù non dice con paternalismo “ti porto in Paradiso”, ma
riconosce con franchezza “sarai con me in Paradiso”. Il ladrone il percorso
l’ha già fatto. Come aveva già detto il maestro “i pubblicani e le prostitute
vi passano avanti...” Chi ha l’umiltà di riconoscersi peccatore si scopre
figlio amato prima di quanto si aspetti.
Vince la
vita nel perdono di Gesù per chi lo sta appendendo alla croce: “perdonali, perchè non sanno quello
che fanno”. Anche questo perdono, come il silenzio del Cireneo, di solito non
fa notizia, ma è molto più diffuso di quanto osiamo sperare. È perdono e allo
stesso tempo riconoscimento di una comune appartenenza, opposta alla logica del
“noi e loro”. Spesso ci lasciamo ipnotizzare dal manicheismo dei film
americani, e crediamo che il mondo sia fatto di buoni e cattivi. Ci fa comodo
pensare che i cattivi siano sempre gli altri, e puntiamo il dito contro di
loro. La preghiera di Gesù “perdonali perchè non sanno quello che fanno” è una
confessione collettiva: “questi miei fratelli non hanno conosciuto il tuo
nome, il tuo amore. Non sono loro a compiere questo male, perchè non sono mai
arrivati in fondo ad essere loro stessi, ad essere immagine tua.” La stessa
compassione e fratellanza la sperimentarono molti martiri dei tempi antichi e
dei nostri giorni, come anche il vescovo Oscar Romero, che chiamava fratelli
quegli stessi militari che poi lo hanno ucciso. O come i monaci di Tibhirine,
che pregavano per quegli stessi terroristi che vennero poi a togliere loro la
vita. Abele che fino all’ultimo momento vede in Caino suo fratello.
Vince la
vita in Gesù che è in pace con la morte. “Nelle tue mani, o Padre, consegno il mio
spirito”. Laudato sii per sorella morte corporale è l’ultimo verso di
una vita vissuta in pienezza: senza rimorsi, senza lamentele, senza
attaccamenti a cose o persone comunque destinate a passare. È il culmine della
libertà. E così, quasi beffardamente, l’uomo appeso ad un legno con tre chiodi,
l’uomo che volevano uccidere come un cane, muore da uomo libero. Più libero di
chiunque altro fra gli astanti. Ai nostri giorni è passata di moda l’abitudine
di pregare per una buona morte: purtroppo siamo così disperati di fronte alla
morte che l’abbiamo bandita dai nostri discorsi. E così abbiamo dimenticato
come viverla; ora la subiamo solamente. Quanto bene ci farebbe,
invece, chiederci cosa quel penultimo passo rivelerà del nostro essere. Ho
sempre ammirato quell’atteggiamento di gratitudine per la vita che caratterizza
la spiritualità di quasi tutti gli africani che ho incontrato, in Kenya prima e
ora in Sudan. Molto spesso, se non sempre, la preghiera inizia con un grazie
per il dono della vita. Questo mi ricorda che nulla va preso per scontato, ma
ogni giorno è un miracolo. Nel mondo economicamente ricco arriviamo a questa
consapevolezza solo quando la malattia o l’età ci costringono a letto: che
peccato non aver aperto gli occhi prima. E allora sì che rischiamo di andarcene
con tanti rimorsi.
Vince la
vita nell’attaccamento delle donne che si recano al sepolcro, forse loro stesse senza sapere perchè.
La loro non è semplice devozione: è amore, attaccamento come ad un figlio
unico, come ad uno sposo. Nella loro determinazione silenziosa (di nuovo, il
silenzio!) stanno per scrivere la pagina di storia che cambierà tutte le altre
pagine. Diventano testimoni della vita che ha vinto la morte. Sono loro la
prima candela di un passamano di fiammelle che arriverà ovunque. Non è un caso
che siano loro, le donne, a fare da apripista della speranza. Abituate a
sopportare, a trovare il modo di andare avanti in un mondo fatto di soprusi e
capricci da parte degli uomini, sono esperte della sopravvivenza, del vivere
sopra. Vivere oltre. E allora la gioia vera ricomincia dalla luce della vita,
che vince.