Monday 1 February 2016

La gioia anche sul Golgota (Lc 23,26-56; 24,1-6)

(inserto di Ormegiovani, febbraio 2016)

Nelle situazioni estreme viene fuori quello che ognuno si porta dentro. Quando la violenza e la paura sono forti e la morte incombe minacciosa, non ci sono spazi per i meccanismi di difesa, non c’è tempo per le parole di convenienza, per le maschere, per le finte. L’urgenza ci spoglia delle nostre falsità e rivela quello che siamo sempre stati. Quello che abbiamo coltivato nel fondo del nostro cuore da anni, e che abbiamo fatto tacere per così tanto tempo di cui – a volte – noi stessi ci siamo scordati.

La passione di Gesù non è stata un’eccezione a questo. Mentre molti, sia fra i suoi seguaci che fra i suoi nemici, si aspettavano miracoli e colpi di scena, Gesù si è lasciato ammazzare. Spogliato, malmenato, inchiodato, deriso, offeso, muore una morte ignominiosa. Vergognosa. Muore da maledetto, e la scena deve essere stata così deplorevole da suscitare, in chi guardava, quel senso di ripugnanza che porta a dire: “Se la dev’essere cercata, e adesso la paga!” Infatti, a volte succede che impariamo ad odiare le persone che non ci piacciono. Anche se in un primo momento abbiamo visto in loro le vittime, c’è un momento in cui il disprezzo diventa odio, e allora giustifichiamo nella nostra mente fredda e senza spirito l’atrocità che si sta consumando di fronte a noi. Succede quando diventiamo indifferenti alla guerra, quando impariamo a tirare dritto di fronte a chi soffre, quando ci prendiamo persino il lusso di essere cinici sul dolore di altri. Come quando a scuola il maestro pensa che l’alunno poco brillante sia necessarimente cattivo.

Eppure il racconto della morte di Gesù non è l’ultima parola. La disperazione e la paura non sono invincibili, ma nel mezzo del buio stesso brilla una luce di vita, una fiammella tenue e delicata che finisce per travolgere tutti.

Vince la vita nel silenzioso aiuto del Cireneo. Mi ha sempre interessato questa figura, che a quanto ne so non è mai salita agli onori degli altari. I vangeli non ci dicono se Simone dopo essersi caricato di quella croce di malavoglia (costretto dai soldati) si sia accorto del privilegio che aveva ad accompagnare il salvatore del mondo. Ma nel silenzio di Simone di Cirene si coglie la silenziosa fede di molti che non parlano e non fanno parlare di se, eppure sono degli eroi. Qui in Sudan, ma ovunque nel mondo, se ne incontrano molti: persone semplici che senza suonare la tromba portano avanti la vita dei loro figli e dei loro cari. E che trovano la forza di sorridere.

Vince la vita nel ladrone che appeso alla croce si affida alla misericordia di Gesù. “Ricordati di me”. Forse il dolore di tanti che finiscono in prigione o ai margini della società sta nel fatto che nessuno si ricordi di loro: nessuno li porta nel cuore. Allora lo sguardo compassionevole, e la promessa di un posto in paradiso, sono la vittoria della vita. Prima ancora che la morte venga a presentare il conto. Bellissimo che Gesù non dice con paternalismo “ti porto in Paradiso”, ma riconosce con franchezza “sarai con me in Paradiso”. Il ladrone il percorso l’ha già fatto. Come aveva già detto il maestro “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti...” Chi ha l’umiltà di riconoscersi peccatore si scopre figlio amato prima di quanto si aspetti.

Vince la vita nel perdono di Gesù per chi lo sta appendendo alla croce: “perdonali, perchè non sanno quello che fanno”. Anche questo perdono, come il silenzio del Cireneo, di solito non fa notizia, ma è molto più diffuso di quanto osiamo sperare. È perdono e allo stesso tempo riconoscimento di una comune appartenenza, opposta alla logica del “noi e loro”. Spesso ci lasciamo ipnotizzare dal manicheismo dei film americani, e crediamo che il mondo sia fatto di buoni e cattivi. Ci fa comodo pensare che i cattivi siano sempre gli altri, e puntiamo il dito contro di loro. La preghiera di Gesù “perdonali perchè non sanno quello che fanno” è una confessione collettiva: “questi miei fratelli non hanno conosciuto il tuo nome, il tuo amore. Non sono loro a compiere questo male, perchè non sono mai arrivati in fondo ad essere loro stessi, ad essere immagine tua.” La stessa compassione e fratellanza la sperimentarono molti martiri dei tempi antichi e dei nostri giorni, come anche il vescovo Oscar Romero, che chiamava fratelli quegli stessi militari che poi lo hanno ucciso. O come i monaci di Tibhirine, che pregavano per quegli stessi terroristi che vennero poi a togliere loro la vita. Abele che fino all’ultimo momento vede in Caino suo fratello.


Vince la vita in Gesù che è in pace con la morte. “Nelle tue mani, o Padre, consegno il mio spirito”. Laudato sii per sorella morte corporale è l’ultimo verso di una vita vissuta in pienezza: senza rimorsi, senza lamentele, senza attaccamenti a cose o persone comunque destinate a passare. È il culmine della libertà. E così, quasi beffardamente, l’uomo appeso ad un legno con tre chiodi, l’uomo che volevano uccidere come un cane, muore da uomo libero. Più libero di chiunque altro fra gli astanti. Ai nostri giorni è passata di moda l’abitudine di pregare per una buona morte: purtroppo siamo così disperati di fronte alla morte che l’abbiamo bandita dai nostri discorsi. E così abbiamo dimenticato come viverla; ora la subiamo solamente. Quanto bene ci farebbe, invece, chiederci cosa quel penultimo passo rivelerà del nostro essere. Ho sempre ammirato quell’atteggiamento di gratitudine per la vita che caratterizza la spiritualità di quasi tutti gli africani che ho incontrato, in Kenya prima e ora in Sudan. Molto spesso, se non sempre, la preghiera inizia con un grazie per il dono della vita. Questo mi ricorda che nulla va preso per scontato, ma ogni giorno è un miracolo. Nel mondo economicamente ricco arriviamo a questa consapevolezza solo quando la malattia o l’età ci costringono a letto: che peccato non aver aperto gli occhi prima. E allora sì che rischiamo di andarcene con tanti rimorsi.


Vince la vita nell’attaccamento delle donne che si recano al sepolcro, forse loro stesse senza sapere perchè. La loro non è semplice devozione: è amore, attaccamento come ad un figlio unico, come ad uno sposo. Nella loro determinazione silenziosa (di nuovo, il silenzio!) stanno per scrivere la pagina di storia che cambierà tutte le altre pagine. Diventano testimoni della vita che ha vinto la morte. Sono loro la prima candela di un passamano di fiammelle che arriverà ovunque. Non è un caso che siano loro, le donne, a fare da apripista della speranza. Abituate a sopportare, a trovare il modo di andare avanti in un mondo fatto di soprusi e capricci da parte degli uomini, sono esperte della sopravvivenza, del vivere sopra. Vivere oltre. E allora la gioia vera ricomincia dalla luce della vita, che vince.

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