Thursday, 12 December 2019

natale, veglia del Sudan


Khartoum, Natale 2019
Carissimi amici e amiche!!

Come dicono in inglese “no news – good news”, e in effetti non mi son fatto sentire molto da quando in Sudan è finita la tempesta. Mentre vi scrivo, girano voci di un possibile colpo di coda dei sostenitori del vecchio regime di Bashir. C’è molta tensione in giro, con la paura che si materializzi un tentativo di tornare indietro. Sono i rinculi della primavera araba, che non hanno mai fatto del bene a nessuno.
Ma il popolo Sudanese sembra avere le idee chiare e la voglia di dare un taglio ad un passato dove l’arroganza dei pochi ha dettato legge, contro il buon senso, e contro ogni dettame di umanità.

Il natale di quest’anno arriva come la luce di una piccola candela. È stato un anno buio e burrascoso, con le proteste, e poi la soppressione violenta del sit-in nonviolento il 3 giugno (triste anniversario di Tienanmen, come è beffardo il demonio!). Si sono susseguiti mesi difficili, di paura e di incertezza. Dopo la firma dell’accordo per un periodo di transizione in cui i militari e i civili sono scesi a compromessi (e dove i giovani rivoluzionari hanno a malincuore accettato di sedersi al tavolo con il diavolo, piuttosto di averlo contro), adesso rimane la lunga strada di un paese dilapidato da anni di corruzione e abusi inimmaginabili. Siamo in quell’ora dopo la battaglia in cui si raccolgono i cocci.

Il popolo Sudanese sta dando una grande lezione di umanità. La situazione è dura per tutti, con il pane e i mezzi di trasporto in uno stato di perenne precarietà. Eppure sanno attendere con la speranza che il cambiamento tanto atteso stia venendo.

Per noi missionari – che alla fin fine abbiamo comunque la pancia piena e un tetto sopra la testa – è difficile capire dove trovino la forza. Eppure non cedono. Ricordano tanto i pastori di Natale, di cui il vangelo non ci dice molto, se non che vegliavano nella notte. Mentre tutti dormivano, loro vegliavano. Mentre per gli altri era notte, per loro è apparsa una luce sfolgorante. Mentre per gli altri regnava il silenzio, per loro hanno cantato le schiere degli angeli di Dio nella sua gloria. Ci insegnano che Natale è risurrezione, per chi si fa trovare pronto.

Che questo Natale ci trovi svegli. Con gli occhi aperti per vedere quello che davvero conta. Con gli orecchi attenti, capaci di discernere le false promesse e la retorica da saltimbanco dalla promessa di un salvatore che nasce in un buco di stalla, di là dei margini della storia scritta dai grandi. Con il cuore capace di lasciarsi commuovere dalla generosità dei semplici: una ragazza che si affida alla promessa di un Dio mai visto, e che parla un linguaggio nuovo, quello della riconciliazione.

Che il Signore ci faccia nuovi. Il mondo nuovo che lui ha già creato attende che siamo rinnovati anche noi, per entrarvici.

Buon natale!!


Sunday, 1 December 2019

carne martoriata


(inserto Ormegiovani di dicembre)
Gv 1:1-18

In principio era il Verbo”. Ovvero, la Parola. Eccheggiano queste parole solenni in tutte le chiese del mondo il giorno di Natale.
“In principio”. Giovanni apre il suo vangelo con una introduzione che ha il sapore dell’eternità, non però quella in avanti, ma quella a ritroso. Perchè con Gesù non è iniziata un’altra storia nova, ma la storia è cominciata di nuovo.

L’introduzione di Giovanni ruota attorno a tre immagini: Parola, Vita e Luce. Tutte e tre si inseriscono in una visione del mondo squisitamente semitica, perchè tutte e tre negano quella che invece è l’esperienza più quotidiana e più sofferta di quella fetta di umanità che chiamiamo Medio Oriente, ovvero il deserto.


Personalmente, ho scoperto il deserto quando venni in Sudan per la prima volta, nel 2009. Un giorno fui invitato ad unirmi ai maestri della scuola per una gita “ad un monastero copto in mezzo al deserto”. Io che son cresciuto pensando al deserto come lo si vedeva nei film di Bertolucci, credevo mi sarei trovato in un luogo così bello da essere trascendente, trasfigurante. Ed invece, alla fine, il monastero non era che una pallazzetta di tre piani di cemento armato nel mezzo di una spianata di sabbia grigia piena fino all’orizzonte di sacchetti di plastica (non sto esagerando!). Ancora oggi la delusione mi fa ridere.
Non voglio dire che non esistano deserti belli da visitare (altrimenti mi attiro le ire dei turisti navigati), ma per me il deserto così come lo intende la Bibbia è un posto squallido, non una scenografia da picnic. È ostile, duro, senza misericordia. Se ci mettiamo d’accordo su questo, credo che possiamo capire queste tre immagini giovannee.

La parola rompe il silenzio. Interessante che in ebraico midbar significhi sia deserto che cassa vocale: “una voce risuona nel deserto / nella bocca”, ma non è un boato senza senso: è una parola di vita. Porta un messaggio, una buona notizia. Indica il cammino alla vita, a noi che siamo seduti in un deserto che sa solo presentarci morte tutti i giorni. Forse oggi che viviamo nel frastornato e fastidioso baccano mediatico di parole vuote, Giovanni ci avrebbe detto che Gesù si rivela nel silenzio, ma questo silenzio sarebbe ben altro che vuoto non-essere: sarebbe finalmente presenza, della quale abbiamo tutti sete. L’unica parola che conta.
Vita è antitetica al deserto, che sa offrire solo rocce e sabbia, un terreno egoista che non trattiene l’acqua, ma la fa sparire. La parola è vita perchè finchè c’è qualcuno che dice la parola e qualcuno che la ascolta, siamo vivi almeno in due, quindi non siamo soli.
Luce. Il deserto è antitetico alla luce perchè passa da averne troppa di giorno a non averne alcuna di notte. Per questo i padri del deserto hanno imparato a cercare un’altra luce, quella che illumina dentro. Anche noi oggi a Natale, un po’ come per le voci chiacchiericcie e le campanelline che nulla hanno a che fare con la Parola, ci circondiamo di un milione di luci, forse fedeli alla devozione pagana dei nostri antenati per il Sol Invictus (deprime sentire che in Gran Bretagna sia ormai d’etichetta non parlare più di Natale, ma di “Festa della luce”, come se dopo aver capito che come cristiani dobbiamo rispettare tutti ci fossimo messi in testa che adesso dobbiamo vergognarci di essere cristiani, altrimenti siamo dei fascisti).

Giovanni fa ruotare queste tre immagini, la parola, la luce e la vita per intodurre Gesù. Niente di artisticamente più attraente agli occhi dei suoi fratelli ebrei, niente di poeticamente più affascinante agli orecchi di un popolo di deserto. Sembra un film bellissimo, una melodia maestosa. Tutto torna. Tutto quadra. La promessa di Dio è alle porte.

E proprio lì quando tutto comincia ad aver senso, Giovanni introduce la cosa più strana, più deludente, se non addirittura imbarazzante. “La Parola si fece carne”.
Mi sembra quasi di sentire qualche suo compagno reagire. “Cosa? Carne? Ma sei sicuro? Ma di che parli? Dio, la sua Parola, la sua Luce, la sua Vita diventano carne?
Giovanni sorride. Ha appena tritato le aspettative poetiche e teologiche dei suoi fratelli ebrei, le aspettative gloriose di un messia forte e le ha messe in quel fagotto di debolezza e miseria che è il corpo umano. Dio che si fa uomo. Robe dell’altro mondo.

Natale è tante cose, ma è anche la celebrazione di una delusione che si estende nei secoli e nelle latitudini. In Palestina 2000 anni fa come anche oggi in Italia, in Sudan, ovunque, tutti ci aspettiamo una salvezza eterea, piena di luce e con una colonna sonora di Enya, indolore e magica, che ci trasporti in un momento da un mondo fatto di dolore e sofferenza ad un paradiso fatto di un infinito sospiro di sollievo. Praticamente, un trip.

E invece Dio ha un altro piano. L’eterno sospiro all’incontrario, quello dello stupore. Aspettavamo un leone, e ci hanno mandato un agnello, sgozzato (v. Ap 5,5-6). Aspettavamo un Dio con la bacchetta magica, e ci troviamo di fronte un messia appeso alla croce.
Aspettavamo la gloria divina, qualsiasi cosa, bastava che avesse qualcosa di holliwoodiano, ed invece ci è dato un bambino, figlio di dubbia legittimità di una coppia di malcapitati. “Ci è stato dato un figlio”, canta Isaia. Questo nessuno è la promessa. Promessa di un cammino da fare insieme.
Forse la storia di salvezza Giovanni non ce la vuole raccontare, ma ce la vuol far camminare. Seguendo la gloriosa promessa di Dio raccolta in un fagotto di carne destinato alla croce.
Buon Natale!

Monday, 4 November 2019

ri-cor-dare la guerra, tenere a cuore la pace

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Preghiera per i caduti e per le vittime della guerra

Signore della storia, Dio della vita,
affidiamo a Te i nostri caduti
e tutte le vittime delle guerre e della violenza
che ancora insanguinano le nostre mani di uomini.

Custodisci Tu la loro vita,
che è ormai ne Tuo grembo di eternità,
e fa che nessuna vita umana
sia più calpestata e annientata dalla guerra.

Custodisci Tu i loro cari,
dal cui amore essi sono stati sorretti,
perché siano sostenuti e consolati
dal Tuo amore, più forte della morte.

Custodisci Tu la loro memoria,
rendila ricordo grato e insegnamento perenne
dell’orrore assurdo, del lutto, della devastazione
ce ogni guerra porta al mondo.

Custodisci Tu la loro fratellanza,
nella quale oggi riposano assieme
senza confini di popoli, alleanze, religioni,
testimoniando che la guerra è sempre fratricida.

Custodisci Tu, o Padre, i nostri fratelli
caduti in guerra ma caduti nelle Tue grandi braccia,
dove è la Pace vera, per la quale essi hanno lottato,
e che Ti supplichiamo di riversare sull’umanità. Amen.

(Santo Marcianò, Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia)

Friday, 1 November 2019

di là del muro dell'indifferenza


(inserto Ormegiovani Novembre)
Gv 4,46-54

Gesù incontra un funzionario del re.  Dopo l’incontro con il fariseo di alto rango nel capitolo 3 e la samaritana di cattivo nome ma dal cuore sincero nel capitolo 4, questo incontro sembra porsi all’apice di una progressione da quello che la società considerava “santo” a quello che invece giudicava “peccatore”. Non può non venire alla mente l’incontro con il centurione romano, outsider della salvezza, se non esplicitamente nemico. Ma Gesù non si cura degli approval ratings, e proprio a Cana dove aveva manifestato la sua gloria (cf. 2,11) si gioca la reputazione ed entra in dialogo con questo uomo completamente mondano. Chissà se non esiste qualche quadro fiammingo di questo incontro fra il profeta scalzo e sgualcito ma pieno di luce con il funzionario coperto di pellicce ed ori ma affamato di salvezza...

Nell’incontro fra questi due personaggi così vicendevolmente estranei, c’è un’altra progressione che l’evangelista fa, parlando del secondo. All’inizio lo chiama “funzionario”; ma appena entra in dialogo con Gesù e si fida (affida?) diventa “uomo”; quando poi ritrova il figlio guarito, è “padre”.
Gesù guarisce il figlio malato, ma ridona identità al padre, che fino ad ora era definito dal ruolo, dalla posizione di privilegio, dal lavoro. Torna ad essere uomo prima, per poi scoprirsi padre. Anche papa Francesco, in un’omelia purtroppo dimenticata che fece ai sacerdoti un Giovedì Santo di qualche anno fa, ammoniva i pastori che spesso dimenticano l’unzione perchè oberrati dalla funzione. In una Chiesa che funziona da ONG, a volte il rischio è di perdere la propria identità.

Cosa c’è dietro ad un nome? Qualche cinico obietterà, ma ci sta tanto. Ricordo un giorno un gruppetto di miei studenti di settima (praticamente seconda media), entrare nel mio ufficio al Comboni College. Entrano con il sorriso sulle labbra, ma vedo che uno di loro vuole dirmi qualcosa che gli pesa.
Father – mi dice – ma tu lo sai come mi chiamo io?”
“Certo, Mohammad”.
Lui mi risponde con l’intenistà del dodicenne confuso e offeso,“Mohammad chi? Siamo in sette Mohammad in classe. Perchè io dovrei chiamarti father se tu non ti ricordi neppure il mio nome­ per intero?”

Non credo di essermi mai sentito così spiazzato davanti ad un ragazzo di seconda media. Aveva completamente ragione. Il nome è tutto.  Lo sapeva bene don Lorenzo Milani. Guardacaso la Lettera ad una professoressa comincia proprio così “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.” Lo sapeva benissimo Paulo Freire, che la parola con cui descriviamo il mondo cambia il mondo. Il primo lavoro di Adamo fu dare un nome alle creature, ovvero dare loro un’identità, un posto. Con il nome si possono anche dare delle etichette, incasellare, magari anche sminuire. Ma se non altro, si evoca alla vita, alla presenza. Il Risorto si fa riconoscere perchè chiama per nome la donna che piange: “Maria!”

Il nome. Nominare e ricordare in arabo sono lo stesso verbo, perchè ciò e chi trova un nome sulla lingua ha un posto – fossanche scomodo – nel cuore. Salmo 147 dice che Dio ha un nome per ogni stella del cielo; infatti lui le ha create da artigiano, non con una macchina fotocopiatrice.
Gesù che riesce a perdere tempo per questo signor nessuno, gli ridona il nome. A quante persone sappiamo dare un nome, un posto nella nostra vita? Forse sarebbe interessante contare quante fra le persone che incontriamo ogni giorno  affollano il nostro angolo dell’indifferenza. Magari al lavoro o a scuola le vediamo ogni giorno, ma abbiamo scelto che devono rimanere sconosciute. Per chi vive in città sicuramente la cosa sembra naturale, ma è proprio lì che casca l’asino, perchè è la citta stessa ad essere innaturale: un agglomerato di persone senza nome e di volti senza storia.

La vita si avvera con l’impegno mio e tuo di disintossicarci dall’indifferenza, con l’impegno di coltivare quella curiosità e immediatezza semplice dei bambini, che non hanno paura di fare il primo passo, di uscire dagli schemi della società, di infrangere le gabbie del protocollo. Fare il primo passo, un saluto, uno stringere la mano, un incontro. E scoprire che fuori dal nostro piccolo recinto non è terra di nessuno, non è “hinc sunt leones”, ma inizia una vita nuova, una vita di incontro. Scriveva Helder Camara che un giorno da lontano aveva visto un animale rovistare nella spazzatura della discarica. Avvicinatosi, aveva riconosciuto un uomo. Avvicinatosi ancora, aveva trovato un fratello. Buon cammino!





Tuesday, 29 October 2019

non dei nostri meriti

Un fariseo e un pubblicano salgono al tempio

Il primo a ricordare a Dio la propria bravura,
il secondo a presentargli la propria miseria

Lui non si cura dei nostri meriti
ma delle nostre debolezze

Tuesday, 1 October 2019

è ora di vivere


(inserto Ormegiovani ottobre)


Gv 2,1-12

Giovanni scrive un vangelo strano, senza parabole (l’unica, quella della donna partoriente, è così corta da non essere quasi mai ricordata da nessuno) e – tecnicamente parlando – senza miracoli. Tutto ruota attorno a sette “segni” e ad una manciata di discorsi che solo il discepolo amato ha avuto modo di sentire e trasmettere.
Il primo di questi segni, quello dell’acqua cambiata in vino alle nozze di Cana, è imbarazzantemente fuori dagli stretti schemi del sacro, del religioso e del devoto.

Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea”. La scena precedente era sulle sponde del fiume Giordano, a valle, in Giudea. La narrazione si sposta in Galilea. I tre giorni di scarto non sono uno stacco narrativo, ma l’incipit della resurrezione. Giovanni comincia già da ora ad usare i colori della morte e della resurrezione, che descrivono non solo l’esperienza terrena del Messia, ma la storia del genere umano. Quello che sta per accadere non è un gioco di prestigio, ma una resurrezione.

In un primo momento tutto sembra andar bene, secondo il programma. Lo sposalizio è un momento di gioia collettiva. Ma ecco che accade l’inaspettato: finisce il vino. E di tutte le persone presenti, è la madre di Gesù ad esserne informata e ad passare l’informazione al figlio. Certo non è quella donna dall’aspetto anemico nel suo distacco dalla vita del mondo, ma invece una donna viva. Del resto, se è “madre” è perchè è viva.

Non hanno più vino”. Con queste quattro parole si potrebbe descrivere la storia umana di ogni dove e di ogni quando. È la constatazione della morte del cuore prima ancora che muoia il corpo.Il vino è il simbolo dell’amore, della gioia, di tutto quello che rende la vita bella e degna di essere vissuta. Il vino è la dignità, che non ha niente a che fare con l’essere (materialmente) ricchi o poveri. Nella bibbia non è il lavoro di per sè che nobilita l’uomo, ma la festa, il settimo giorno, la gioia che sale in scena quando il lavoro è finito. Il lavoro è il presupposto della gioia, ma la gioia è celebrare la vita.
E invece il mondo in cui viviamo ci vuole lavoratori senza sosta, produttori senza riposo, insomma, schiavi. Alcuni con la pancia piena, altri con la pancia vuota, ma preferibilmente tutti senza sorriso. Perchè una persona contenta consuma poco, e una persona libera obbedisce ancora meno.  

Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora.” Come nella risurrezione del Messia di lì a qualche anno, anche qui a Cana è una donna ad essere prima testimone della vita nuova, la vita in abbondanza. Le donne che sono protagoniste quando la vita biologica nasce, sono protagoniste anche della resurrezione.



Fate quello che vi dirà”. Sono le stesse parole con cui il faraone affidò il suo popolo affamato alla sapienza di Giuseppe. Anche qui la madre, invece che imporsi, fa un passo indietro e diventa discepola. Non è lei ad avere le risposte, non è lei ad avere le chiavi dei granai del Regno, non è lei la sorgente della Vita nuova. Lei indica. In un certo senso, queste sono le parole che la madre di Gesù ha detto e continua a dire a noi tutti, da duemila anni.

Vi erano sei giare per la purificazione... Gesù disse ai servi: Riempitele”. Sei giare per la purificazione, evidentemente vuote. La foto della fallimentarità dell’autosalvezza umana. Le testimoni di quanto le leggi antiche e le logiche del buonsenso e dell’etichetta siano inutili. Si è lavata l’umanità, con l’acqua stagnante delle proprie regole e del proprio senso di giustizia, e si è trovata ad essere vuota e sporca, dentro e fuori. Gesù non porta la religione del buonsenso, del politically correct, dell’autoassoluzione ipocrita dei farisei di ieri e dei devoti signori della guerra di oggi.
Quello che Gesù porta è la buona notizia, che non è un tweet or una formula magica, ma seicento litri di vino. Buonissimo. Vino per tutti. Vino di prima qualità. Vino così buono che nessun somelier aveva mai assaggiato.

E a Cana è già Pasqua. Una finta vita che si stava soffocando nella sua autoreferenzialità viene inondata dalla buona notizia del Figlio di Dio.
È giunta l’ora della nuova vita. San Daniele Comboni ne parlava, dell’ora dell’Africa, l’ora della rigenerazione. Non è tempo di calcoli e di buonsenso, non è il momento di fare i conti con il proprio buonismo stantìo e sterile. È l’ora di dar spazio a lui. 
È l’ora di vivere. Fate quello che vi dirà!
Buon cammino Gim a tutti!
Diego – Khartoum


Tuesday, 16 July 2019

ciao, don Roberto!

Carissimo don Roberto,

anche nell’afosa Khartoum che non trova pace qualcuno oggi piange per la tua partenza. Fa male il fatto di non poterti ringraziare a sufficienza. Hai dato tanto alla nostra parrocchia. Forse non sempre te ne siamo stati grati come sarebbe stato giusto. Ma ci hai dato il meglio che avevi. Tutti i talenti che avevi, ce li hai dati, e li hai dati a Dio. Ti abbiamo conosciuto come parroco, a Cogollo, come un uomo riservato, ieratico, se non addirittura serioso nel tuo incedere liturgico. 

Grazie per le tue omelie, forse non briose, ma certamente sempre ben preparate e meditate. Grazie per aver sempre pregato e fatto pregare per le vocazioni. 

Ricordo con affetto quanto mi sei stato vicino negli anni del seminario minore, e poi anche negli anni di preparazione al sacerdozio missionario. Ti ho fatto sbuffare quando ti ho detto che mi sarei fatto Comboniano, ma ho sentito tanto affetto anche in quel sospiro, quando mi dicesti “Va bene, non sarà con i violini del Seminario Maggiore, ma – come dice il salmo – in cymbalis benesonantibus dell’Africa. L’importante è che dai lode al Signore!”

Grazie infine per averci mostrato come la vecchiaia, vissuta nella fede, possa essere anche una nouva rinascita. In te come in pochi altri abbiamo visto il vino diventare più saporito nel tempo. I tuoi ultimi anni da “nonno” più che da padre sono stati quelli in cui hai sorriso di più, e te ne vogliamo essere grati.
Continua ad accompagnarci dal cielo, dove ci diamo appuntamento. Ciao, e ancora grazie.

p. Diego

Saturday, 20 April 2019

vita nuova

Resurrezione vuol dire vita nuova

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Israele che esce dall'Egitto 
passa dalla schiavitù alla libertà

I cristiani a cui scrive San Paolo 
passano dalla vita del peccato a quella di Cristo.
Da una vita fatta di violenza, vendetta, condanna, egoismo, divisione,
ad una vita dove c'è vita per tutti, perdono, accoglienza, servizio, famiglia.

Se credere nella Pasqua non vuol dire che crediamo nella vita NUOVA di Cristo
allora siamo come un sasso, seduto nel fondo di un fiume
possiamo rimanere lì cento anni
ma dentro siamo secchi, senza vita

Pensare che "andare in chiesa" basti a farci cristiani
è come pretendere che mettere un bancone in un'officina 
lo possa trasformare in un'auto

Essere "cristiani", ovvero assomigliare a Cristo
è vivere la vita nuova che Lui ha vissuto
una vita che non comincia nell'aldilà, 
ma oggi

Oggi è il giorno della Resurrezione.

Il giorno della resurrezione è oggi. Sempre.

Friday, 19 April 2019

"Chi cercate?"

I giardini nella bibbia sono sempre luoghi di domande imbarazzanti

Da quei famosi "Dove sei?" e "Dov'è tuo fratello?" narrati da Genesi...

E oggi, nel giardino degli ulivi, Gesù rivolge una domanda
la rivolge a chi lo vuole arrestare
ma ad arrestarsi sono loro
anzi, cadono pure, indietro

"Chi cercate?"

E la chiede a me e a te, in questa notte.
Chi cerchi, sul legno della Croce?

Un uomo?
Un famoso anonimo? Gesù di Nazareth?
Un filosofo?
Un rivoluzionario?
Un operatore di miracoli? Mister Fix-it?

Le pagine della passione trascorrono, quasi distratte, mentre nella chiesa, come ogni anno, un certo brusolio si fa sentire. Non è un'indifferenza nuova, ma è parte del soundtrack della crocifissione di 2000 anni fa. Oggi come allora, Gesù muore fondamentalmente nell'indifferenza degli indaffarati.

Solo al momento della sua morte il mondo sembra fermarsi, in silenzio, ma è un silenzio con la memoria corta.

Quando ormai il mondo ha voltato pagina, quando ormai abbiamo compiuto il nostro attimo di devozione, allora fa la sua comparsa, nelle ultime righe del passio, uno dei personaggi più strani del vangelo di Giovanni: NICODEMO.

Nicodemo viene con 30 chili di unguento. Trenta!
Lui ha trovato Dio

Un Dio strano: è morto
la sua onnipotenza nascosta dietro la morte che si addice ad uno schiavo
ed infatti non fa meraviglia che la giovane Bakhita - oggi santa - avesse chiesto alla sua "padrona" chi fosse quello schiavo appeso al muro.

Nicodemo ha trovato Dio
e io, cosa cercho?
e tu, chi cerchi?

Thursday, 18 April 2019

Gesù che lava i piedi


Gesù che lava i piedi esprime tenerezza ai suoi discepoli. Li ama “sino alla fine”, ovvero al di là dei limiti. Dopo la fine non c’è nulla. È senza limiti. Smisurato. Affettuoso, con questi burberi pescatori ignoranti e testardi di Galilea, gente materialista e un po’ grezza. E lui li tratta con la dignità di signori, di re. Lui si fa servo per loro, e così li incorona principi, non a parole ma con i fatti. Chi può dire “il mio Dio mi ha lavato i piedi”? Robe mai viste. Pietro che ragiona in termini di dignità umana si oppone, ma Gesù, sorridendo, gli risponde che la dignità umana non vale nulla se perdiamo la comunione, lo stare insieme. “Se non ti lavo, non avrai parte con me”.

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Gesù che lava i piedi purifica un cammino. Il cammino che ha condiviso con i suoi ha segnato i piedi di questo sparuto gruppetto di Galilei. Non solo i piedi, ma anche gli occhi, gli orecchi, la mente e il cuore sono segnati da questo cammino. Hanno udito e visto cose che re e profeti dei tempi antichi avevano sognato di poter vedere. Hanno camminato su un terreno ben più santo del luogo del roveto ardente di Mosè, perchè hanno calpestato le orme di Dio in terra. Ma hanno anche raccolto la polvere della loro mediocrità e il fango della loro cattiveria. Hanno mescolato la creazione nuova di Dio con l’unica vecchia creazione dei figli di Adamo: il peccato.
Gesù non si scandalizza, non sbuffa, ma accoglie. Ad uno ad uno, prende fra le mani i piedi di questi uomini e li lava, li purifica. Li consola. Li rinnova. Perchè – e loro ancora non lo sanno – il cammino non è finito qui: sta appena appena per iniziare.

Gesù che lava i piedi serve. “Chi pecora si fa il lupo se lo mangia”, insegna il buonsenso. Eppure Gesù se ne infischia del buonsenso, del protocollo, dell’etichetta. Non gli interessa cosa la gente dice di lui, non lo preoccupa la sua immagine. È spoglio della veste, ma anche del senso di autoreferenzialità – una cosa che gli è più estranea della neve ai tuareg del Sahara. Servizio vuol dire non interessarsi delle cronache, non pre-occuparsi con la risonanza mediatica. Nel mondo delle selfie che ci hanno dato la falsa impressione di essere tutti dei qualcuno, Gesù sceglie di essere nessuno, chiunque. “Fa’ il bene e gettalo nel mare”, recita un proverbio arabo. Fallo e basta. Non pensare alle cronache di domani. Non preoccuparti che qualcuno prenda nota. Non farti fotografare. Fallo in silenzio. Che non sappia la tua destra cosa fa la tua sinistra.

Quando fai un dono, fallo con un sorriso