Monday, 1 June 2020

quel pessimo buon pastore

(inserto Ormegiovani Giugno 2020)
Gv 10,7-21

Quando ormai l’establishment religioso ha deciso che i giorni di Gesù sono contati, lui alza il tiro. Proprio nel cortile del tempio che era soprannominato “ovile” perchè rappresentava il gregge di Dio, il suo popolo eletto, Gesù si mette a dire di essere lui “la porta”. Anzi, lui è “il pastore”. E che pastore!
Già aveva dato prova di non seguire i canoni universali della pastorizia quando aveva dichiarato con nonchalance che per lui una sola pecora smarrita va salvata anche a costo di lasciarne 99 nel deserto (qualcuno aveva esclamato beffardamente “auguri!”). Ma ora esagera dicendo che lui, il pastore buono, è pronto a dare la sua stessa vita per le pecore. A fronte del lupo che viene a divoralre.
Ricordo un paio d’anni fa, mentre in classe cercavo di spiegare ai miei studenti di ottava le parole di Gesù “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Quando ho chiesto loro come capissero queste parole, uno mi rispose che è meglio essere quello che da, visto che vuol dire che qualcosa da dare ce l’hai... mentre se sei sempre quello che riceve, allora vuol dire che sei proprio un poveraccio.
La mia prima reazione fu fra il divertito e lo scandalizzato, visto che mi sembrava troppo.... “materialista”.... eppure, a pensarci bene, credo che la pragmaticità dei miei studenti ignoranti fosse più vicina alle parole di Gesù di quanto non lo fosse il mio romanticismo teologico...
Perchè veramente nel dare c’è la gioia della libertà, che chi riceve non si può permettere.
Il pastore non è buono perchè “sorride” in faccia al lupo che grigna i denti. Gesù ci ha insegnato ad amare i nostri nemici, ma non ha mai parlato di sorrisi e occhi tondi.
Lui da la sua vita, e questa vita che ci da diventa in noi una nuova vita.

Mi vengono in mente le parole di Ezechiele Ramin in una delle sue ultime lettere, “la vita è bella e sono contento di donarla”.
E proprio rispolverando queste parole di Ezechiele mi sono imbattuto in un altra sua lettera, datata 12 febbraio 1985

(...) Sto camminando con una fede che crea, come l’inverno, la primavera.
Attorno a me la gente muore (la malaria é cresciuta del 300%) i latifondisti aumentano, i poveri sono umiliati, la polizia uccide i contadini, tutte le riserve indios sono invase. Con l’inverno vado creando primavera.
Giobbe mi suggerisce le parole piú amare “so che il mio vendicatore vive... io lo vedrò nell’ultimo giorno”. I miei occhi con fatica leggono la storia di Dio quaggiú. Come vedi sto andando da Gerusalemme a Gerico e incontro il vangelo. (…)

È fatta di tanti pezzi, questa lettera, se togli la malaria e ci metti il Covid19, fa rabbrividire quanti di questi pezzi siano attuali, dopo tanti anni!
Spero non me ne voglia Ezechiele, se faccio una lectio di queste sue belle parole. Anche perchè, se son belle, vuol dire che sue non sono.

Sto camminando con una fede che crea, come l’inverno, la primavera”. A volte pensiamo alla fede come ad un arrivo, e che le scelte della vita siano per chi ha una fede forte. Invece la fede è un cammino dipinto nei toni dell’inverno. Ma è proprio la sua incompletezza, forse anche la sua miseria, ad aprire lo spazio alla primavera. La fede è inverno, e il regno di Dio è la primavera. Che ti piaccia o meno, questa primavera sta arrivando, non perdere tempo a lagnarti e piangerti addosso perchè non sei tu ad essere il sole. Tu sei desiderio di vita. Tutti noi lo siamo.

Attorno a me la gente muore... i latifondisti aumentano, i poveri sono umiliati, la polizia uccide i contadini, tutte le riserve indios sono invase.” Sembra di leggere il giornale di oggi, di ogni oggi. Ma qui arriva, quasi come un ritornello con un fraseggio squisitamente lusofono “con l’inverno vado creando primavera”. L’inverno che sono io è lo stesso inverno in cui vive il mondo. Perchè ci apparteniamo a vicenda. Io non sono un supereroe che viene da un altro pianeta, ma mi porto l’inverno che questo stesso mondo sta vivendo. Del resto, sono stato creato dalla sua stessa polvere...

I miei occhi con fatica leggono la storia di Dio quaggiù”. Perchè a camminare con Gesù non si capisce mai se siamo noi a leggere la Parola, o lei a leggere noi. E perchè Dio ha cambiato domicilio e vive fra noi – anche se in molti si ostinano a chiamarlo straniero.

Sto andando da Gerusalemme a Gerico e incontro il vangelo”. Qui permettimi di aprire a due letture. Da una parte, sembrerebbe che siamo il buon Samaritano, che trova sulla sua strada l’uomo aggredito dai briganti. Il vangelo allora è aggredito, e noi gli veniamo in soccorso. C’è una profonda identità fra Gesù, la Parola e i poveri. “Ogni volta che avete fatto ciò ad uno di questi miei fratelli...”. Ma ad essere attenti, la parabola di Luca 10 non ci dice che il samaritano scendesse da Gerusalemme a Gerico. Questo ci è detto del malcapitato, che proprio scendendo dalla città santa incappò nei briganti. Allora il vangelo è quello che assale...
Non so come continui la lettera, ma è vero che spesso il vangelo ci assale. Per farci come morire al nostro io vecchio, e farci soccorrere da chi mai e poi mai avremmo pensato ci portasse bene, il buon Samaritano, il buon Pastore.

Chiudo questa riflessione, e invero questo anno di condivisioni con te su questa pagina di Ormegiovani, augurandoti buon cammino. Che il buon Pastore ti trovi, e che tu ti lasci curare dal buon Samaritano. Poi potrai continuare il cammino. Ciao.

Ramin, il comboniano italiano martire fra gli indigeni - CEInews


Sunday, 31 May 2020

pentecoste, festa del raccolto

Pentecoste, festa del raccolto del grano
E per il popolo di Israele il più grande raccolto di tutti è stato fatto nel deserto
Erano appena entrati nel deserto, vi erano ancora stranieri
E hanno raccolto la legge
Il più grande raccolto

Ma per i discepoli chiusi nel cenacolo
Un raccolto ancora più grande
Non più la legge, quello che noi dobbiamo fare per Dio
Ma il vangelo, quello che Dio ha fatto – e continua a fare – per noi
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Saturday, 2 May 2020

Missione: e dopo il Covid19?


(Nigrizia di maggio)

Abbiamo tutti seguito i primi atti di questa pandemia con una certa indifferenza, se non addirittura con cinismo. Finchè la pandemia era in un angolo di Cina, ci potevamo premettere il lusso di credere che fosse lontana. Ma i voli da Pechino a Malpensa sono frequenti e veloci, e prima ancora che ce ne accorgessimo il virus è arrivato lì da voi in Italia e in Europa. E ha cominciato a colpire senza pietà.
Inutile per me fare la cronistoria della quarantena, dapprima cominciata con i congiuntivi, e poi via via impostasi con forza. Per me comboniano a Khartoum, invece, è interessante vedere come la gente qui quotidianamente mi chieda come stia “la mia gente” in Italia. In arabo sudanese ahal “la gente” di qualcuno è la sua famiglia. I mali che accadono nel mio Paese lontano mi riguardano come mali che accadono alla mia famiglia. Già questo per me è essere “casa comune”, come papa Francesco ama chiamare il mondo.
Impossibile fare previsioni su come la pandemia si evolverà. Qui in Sudan ad oggi conosciamo di “solo” 14 casi ufficiali, eppure il governo sta già prendendo misure forti. Prima che morisse la prima vittima, il primo passo è stato chiudere areoporti e confini di mare e di terra. Il primo passo! Nei paesi che non hanno ancora “imparato” la democrazia occidentale, le misure sono state comparativamente più drastiche e in tempi più utili. Speriamo serva. Anzi, speriamo basti, perchè qui in Africa la prevenzione sembra essere non solo la prima difesa, ma anche l’unica.
La virus è democratico nel senso che colpisce tutti senza distinguere nazionalità, età, colore e genere. Ma la pandemia sta mettendo alla luce il forte divario fra una società post-industriale che si può permettere settimane di quarantena ed un sud del mondo sempre rimasto pre-industriale dove la gente lavora soprattutto a giornata, sia nelle zone rurali come anche in quelle urbane. Da queste parti, l’idea di uno shut down completo per due o tre settimane sta spaventando la gente più del virus stesso. Non si sa se temere di più l’epidemia in quanto tale, o i suoi effetti collaterali in campo economico. Il famoso proverbio messicano dice che quando gli Stati Uniti starnutiscono il Messico prende la polmonite... il problema oggi è: cosa succede al mondo quando sono gli Stati Uniti ad avere il febbrone?

Un giorno i nostri nipotini studieranno la pagina di storia in cui si parla dell’epidemia del corona. Avranno alla mano il numero delle vittime, ma anche un elenco di cose che saranno cambiate. Forse impareranno che avremo cambiato il modo di salutarci (proveranno imbarazzo al pensiero che fino al 2020 ci davamo la mano), ma ben altro. Sarà cambiata l’educazione; mentre finora l’uso dell’online sembrava una fisima degli addetti ai lavori, da ora in poi passerà non solo come possibile, ma come auspicabile. E in quest’ottica, la bancarotta di metà campus universitari nel nord del mondo è stata accellerata di almeno 10 o 15 anni. Sarà cambiato il modo di lavorare, di viaggiare, di impostare la casa e il tempo in famiglia. E – in un modo che non sappiamo ancora immaginare – sarà cambiata la Chiesa.

La Chiesa qui in Africa ha risposto in modi diversi allo sviluppo della pandemia. Fra le scelte più sofferte, come del resto nelle diocesi di ogni latitudine, la scelta di sospendere le messe e le attività in generale: scuole, catechesi, servizi sociali, incontri, attività di ogni tipo. Alcune conferenze episcopali, come quella dello Zambia, hanno preso questa scelta prima ancora che si parlasse di casi nei loro Paesi. Altre, come il Kenya o il Sud Sudan, hanno preso la decisione di rimbalzo alle decisioni delle autorità civili, quando ormai si era capito che la cosa non era un problema “solo europeo” più di quanto non fosse già stato “solo cinese”. Qui in Sudan pure siamo arrivati a questa dolorosa scelta – tanto più sofferta per il fatto che si è imposta nei giorni precedenti a Pasqua.
Al di là del giudizio su queste misure drastiche (non perchè sia troppo presto, ma perchè non è neppure giusto usare il metro del giusto e dello sbagliato in momenti di tanta confusione), fa riflettere quello che queste scelte ha messo in luce della Chiesa in Africa.

Innanzitutto, è venuto alla luce un divario fra la fede semplice della gente locale che dice “dobbiamo invece pregare insieme di più, perchè la preghiera ci salva” e il linguaggio dei missionari che invitano a sospendere le messe per ridurre il rischio di contagio. Si è come verificato un dialogo fra sordi. Se prendiamo per buono il modello di fede “trasmessa” dai missionari ai locali (e magari è qua che mi sbaglio), allora vien da chiedersi di cosa si stia parlando. Mentre i missionari fanno i loro distinguo fra fede e medicina, buona parte della gente si aspetta che la pratica religiosa funzioni da scudo. Non è solo una questione di alfabetizzazione, ma di forma fidei. Nella stragrande maggioranza delle religioni tradizionali africane, fede e guarigione non sono neppure due cose distinte. La pandemia del Covid 19 rischia di presentare la fede cristiana come una fede senza guarigione... o una fede astratta. Qualcuno citerà san Paolo che dice dei Giudei che chiedono segni e dei Greci che chiedono sapienza. Altre civiltà chiedono guarigione. E noi, come rispondiamo? La guarigione non è solo il pallino del Milingo di turno. Che risposta dà il vangelo alla sete africana di guarigione? Come riconciliare la ritirata fra le mura domestiche con l’assioma di Tertulliano caro salutis cardo (la carne è il perno della salvezza), per cui la centralità dei sacramenti poggia sulla loro corporeità e non è data Chiesa lì dove non ci sia comunione fisica fra persone?   

In secondo luogo, viene detto alla gente di pregare “in casa”. Anche qui, lasciamo ai posteri l’ardua sentenza di valutare le conseguenze di questo cambio di paradigma. Ma ci è possibile pensare a degli scenari. Fra i tanti, la possibilità che questa misura produca una spinta al movimento del disinteressamento, che – nonostante la letteratura romantica di alcuni missionari ancora ferma all’Africa delle savane – è già presente nelle città africane da diversi anni. Con l’urbanizzazione e la fine del modello villaggio/parrocchia, si è innestato nelle giovani generazioni urbane africane un bel po’ di distacco dalla pratica religiosa. Che sia ora di metterci in discussione?
Un altro scenario, che non necessariamente esclude il precedente ma casomai lo completa, è la possibilità che rafforzando la vita di preghiera in casa si venga a sgonfiare la piramidalità della Chiesa istituzionale – che pure è un altro white elefant della letteratura missionaria, che da sempre parla dell’Africano-uomo-di-comunione, e quasi mai affronta il problema dei vescovi africani che si atteggiano da capotribù. In più, nella fretta di trovare piattaforme social per far arrivare ai fedeli le messe, il rosario e la catechesi, si è ben capito che qui in Africa più che altrove il laicato urbano e i sacerdoti non sono certo sulla stessa pagina. Per dirlo in soldoni, mentre i giovani africani tengono il passo della rivoluzione mediatica, il clero locale si muove ancora con canali e ritmi vecchi di quarant’anni. Anche qui, il divario fra la Chiesa Cattolica e altre denominazioni pone alla prima non poche sfide. Nell’età del “comunico ergo sum” la Chiesa non deve chiedersi “a quanti” sia capace di comunicare, ma “cosa” stia loro comunicando.

La società africana ha fatto molti frog leap – “salti di rana”, ovvero salti qualitativi senza i passi intermedi che ci sono stati altrove – in molti ambiti: lo abbiamo visto nel campo telecomunicativo, sociale, politico, economico. Viene da chiedersi che salto verrà fatto nella Chiesa e nella missione una volta che questa pandemia sia passata. Viene da chiedersi se laici e consacrati faranno questo salto insieme, o se i primi lasceranno indietro i secondi.
Papa Francesco poche settimane prima della pandemia aveva indetto per il 2022 un sinodo sulla sinodalità della Chiesa. Chissà come questa stessa parola avrà un significato diverso dopo che avremo passato questo tunnel. Come ci siederemo al tavolo con gli africani rurali che abbiamo scandalizzato nel momento dell’epidemia, e con gli africani urbani ai quali abbiamo lasciato intendere che la messa in streaming è pur sempre messa?

In una forma o nell’altra, il Covid19 rappresenta un momento di smarrimento, simile all’esilio del popolo di Dio nella terra senza tempio, senza altare, senza offerta. Paradossale, che il chiudersi in casa sia esilio. Ma la storia della missione, in Corea come sui monti Nuba o in Amazzonia, ci insegna che la fede non muore con l’assenza fisica dei preti. Certo ci sarà una potatura, non solo numerica (ahimè dolorosa), ma qualitativa. Potatura di tante idee di grandezza, della confidenza nella nostra forza, nei nostri numeri e nei nostri modelli vecchi. Potatura come la Pasqua: morte e vita nuova.


Friday, 1 May 2020

Sete di Pasqua

(Inserto Ormegiovani maggio)


Gv 19,25-42; 20,11-18

Gesù è sulla croce. L’evangelista Giovanni, l’unico dei dodici ad avere il coraggio di stare di fronte al maestro nell’ora del supplizio – o forse l’unico senza il cuore di lasciare sola una madre che accompagna il figlio ad essere inchiodato a morte – ci racconta dei dettagli che gli altri evangelisti non ci hanno dato.
Sono tre le frasi che Giovanni sente dire dal maestro. Discepoli di ogni quando e dove hanno sempre avuto la premura di trascrivere le ultime parole dei loro grandi maestri. Di regola imbellendo, aggiungendo, grammaticando, tagliando via i sospiri di troppo e i versi senza senso, soprattutto di chi muore nel sangue.
Invece il pescatore di Cafarnao del suo Maestro trascrive tre frasi che – a prima vista – non sembrano affatto solenni. Della prima (Donna, ecco tuo figlio... figlio ecco tua madre) possiamo dire che è enigmatica. Delle altre due (“Ho sete” e “Tutto è compiuto”) si potrebbe dire che sono così screve di cerimoniosità da essere imbarazzanti. Possibile che il Maestro che aveva affascinato le folle e fatto udire i sordi non avesse di meglio da dire?
Al di là della valutazione estetica, sono le tre parole che il Signore ci lascia. Dopo il testamento che il Signore ha proferito nell’ultima cena, dal capitolo 13 fino al 17, queste tre parole strane e stracce sono il testamento del testamento. Dei poveri mozziconi di legno bruciato con i quali ci vien dato di dare senso all’esecuzione che più di ogni altra esecuzione della storia non aveva senso.

Primeggia per la sua semplicità la parola “Ho sete”. Con queste parole, il figlio di Maria sembra chiudere la sua parabola esistenziale. Alla morte si arriva con il bisogno fisico più elementare, più semplice. È il compimento dell’incarnazione. Nella sua morte non meno che nella nascita lo riconosciamo uomo.
Ma più in là di questo, con la sete, chiude anche il suo ministero colui che era partito da quaranta giorni e quaranta notti di digiuno nel deserto, alla fine dei quali, ci dicono i vangeli, “ebbe fame”. Il ministero di Cristo è inscritto fra la fame e la sete, l’esigenza. Chi lo ricorderà solo per i miracoli lo ha confuso per un messia holliwoodiano, ma Gesù Cristo ci salva con la sua debolezza più che con i miracoli che ci piacciono tanto. Con la sua fame e sete, lui che era canzonato “mangione e beone”, sempre invitato a tavola da peccatori pure affamati di salvezza. La sua fame e la sua sete sono fame e sete di salvezza. Salvezza del mondo.
Mi ha sempre colpito vedere in ognuna delle cappelle delle Missionarie della Carità (“suore di Madre Teresa”) che questa parola – Ho sete – è appesa vicino al crocifisso, in qualsivoglia lingua. Nella sete del patibolo sul Getzemani si riassume la vita di Cristo: la sua incarnazione, il suo messaggio, il suo zelo divorante per la volontà del Padre. Ma si riassume pure la vocazione missionaria, ogni vocazione. Risponde a Dio solo chi sente la sua sete. Non solo; in quelle parole si riassume la storia del mondo, che attende salvezza, non solo la pancia piena, ma senso, dignità, amore.
In queste parole si trova, incredibilmente, anche la speranza. Come un pozzo nel deserto. La sete di Gesù non è un vuoto che consuma, ma una sorgente. “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10).

Così dalla croce Gesù non vuole ricevere, ma dare. Al discepolo amato ed alla madre dona l’un l’altro. Nell’ora dello smarrimento, della morte e della paura, ci dona la comunità. Lo vediamo in questi giorni, in cui il mondo è diventato come una stretta ed affollata zattera di Gericault (e quando il papa dice che siamo tutti sulla stessa barca, intendeva davvero tutti, anche quelli che sono davvero sulle barche...). 


La comunità ci dona la forza della solidarietà nell’ora in cui la disperazione digrigna i denti e fa la sua scommessa sul nostro cuore ferito.
Come se non bastasse, non ci dà “solo” la comunità. Ci dona lo spirito. Lui che muore di asfissia, ci da il soffio, tutto quello che gli rimaneva. Lo stesso alito vitale con cui ci aveva creati. Quella brezza che ci ha trasformato da polvere informe ad immagine di Dio. Muore il Dio della vita, ma la vita non finisce: è trasferita in noi. La vita eterna non è una quantità di tempo, ma la qualità del vivere di Dio. Vivere dando, perchè “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Anche queste sono parole che si sono incarnate di fronte a noi in questi giorni, nel sacrificio di medici, paramedici, volontari, e tanti altri eroi senza piedistalli e senza monumenti che la storia ricorderà in massa, ma che hanno dato la loro vita, se non anche il loro stesso respiro, per salvare altri, sconosciuti.
Ma ancora non basta. Persino da morto il Signore continua a donare, la sorgente non smette di zampillare. Gli viene trafitto il costato, e da questo escono “sangue ed acqua”. I padri della Chiesa vedono qui la nascita della Chiesa, nei sacramenti del battesimo e dell’eucaristia. Ma è anche da notare che Giovanni dice prima “sangue” e poi “acqua”. Perchè Gesù non ci da una vita in astratto. Ci da la sua vita. Dona la vita, per darci Vita. L’acqua che segue il sangue è già il primo fiotto della resurrezione.

E il giardino di Pasqua è irrorato dalle lacrime della Maddalena, che piange. Il Signore le chiede “Donna perchè piangi? Chi cerchi?”. Lei, fra i singhiozzi, non si cura di rispondere a tema, ma avrebbe dovuto confessare che non stava cercando qualcuno, ma un corpo morto. Ed invece ha davanti a sè il Signore della Vita. La scena è talmente lontana da quello che lei cercava, che non si accorge neppure che sta parlando non con il giardiniere del Getzemani, ma con il giardiniere della Genesi. Lui la chiama per nome, e lei torna alla vita. Non è risorto solo Gesù, quel mattino, ma anche Maria di Magdala, che era morta nella sua ricerca di un morto, ed ora si trova a parlare con Dio in un giardino. Vorrebbe fermarsi, ma il Signore la manda. “Va’ dai miei fratelli”. Pasqua non è tempo di fermarsi a trattenere. È tempo di correre. Tempo di dare.

Sunday, 12 April 2020

passi conosciuti

E mentre Cristo si avvicinava a lui nel profondo degli inferi,
Adamo disse:
"Sento i passi di uno che conosco"
(S. Efrem Siro)


Adamo da quei passi era scappato per paura, 
molti moltissimi anni prima
Ora sente gli stessi passi, 
che vengono però a salvarlo

Se il peccato accadde 
nel giardino più splendido che si sia mai visto
oggi la salvezza avviene 
nell'angolo più buio, remoto e squallido dell'inferno

Stessi passi, 
stesso Dio, 
stesso Adamo.

Ieri la fuga e la morte, 
oggi l'abbraccio e la vita

Buona Pasqua!

Saturday, 11 April 2020

disse la morte


La Morte aveva finito il suo beffardo discorso
e la voce di nostro Signore risuonò
fragorosamente nello Sheol,
aprendo ogni tomba una per una.

Terribili spasimi afferrarono la Morte nello Sheol;
dove la luce non era mai stata,
raggi brillarono dagli angeli che erano entrati
per far uscire i morti a incontrare
il Morto che ha dato vita a tutto.

La morte di Gesù è un tormento per me (dice la Morte),
vorrei averlo lasciato vivo:
sarebbe stato meglio per me che la sua morte.

Qui c’è un morto la cui morte trovo detestabile;
alla morte di ogni altro io gioisco,
ma la sua morte mi tormenta,
e aspetto che torni alla vita:
durante la sua vita egli ha fatto rivivere
e portato di nuovo alla vita tre morti.

Ora attraverso la sua morte i morti
che sono venuti di nuovo alla vita
mi calpestano alle porte dello Sheol
quando vado per trattenerli.

Correrò e chiuderò le porte dello Sheol
davanti a questo Morto
la cui morte mi ha rapinato.

Chi sentirà ciò si meraviglierà
della mia umiliazione,
perché sono stata sconfitta
da un Morto venuto da fuori:
tutti i morti vogliono andare fuori,
e lui insiste per entrare.

Un farmaco di vita è entrato nello Sheol
e ha riportato i suoi morti indietro alla vita.

(Sant’Efrem il Siro, Inni sulla Risurrezione)

Sunday, 5 April 2020

benvenuti a Gerusalemme!


Oggi, domenica delle Palme leggiamo due brani del vangelo. Nel primo, che abbiamo appena sentito, l’entrata di Gesù a Gerusalemme. Nel secondo, ben più lungo, la passione, sempre secondo il vangelo di Matteo.

Gesù entra a Gerusalemme, la città delle contraddizioni, città il cui nome significa città della pace, e che tutti sappiamo essere una delle città nella storia dell’umanità che forse più di tutte non ha che vissuto la guerra e la violenza.
Questa è Gerusalemme, la città delle contradizioni. Oggi accoglie Gesù al canto di Osanna, e fra pochi giorni ne chiederà l’uccisione sulla croce.
Oggi gli apre le porte, e domani lo crocifigge fuori dalle mura.
Oggi pone frasche ai piedi, domani pone il legno del supplizio sulle spalle.
Gerusalemme non è solo casa nostra. Noi stessi siamo Gerusalemme, visto che in noi abitano il santo e il peccatore, il discepolo e il fariseo.

Oggi entriamo nella settimana santa ed entriamo il tempo della contradizione. Gesù stesso è segno di contradizione e vuole entrare nella nostra Gerusalemme proprio mentre noi siamo chiusi nelle case di cemento e vorremmo uscire.
Lui vuole entrare, proprio lì dove noi non vorremmo avere ospiti, men che meno profeti.

Faccio una lista veloce, e non esaustiva, delle contradizioni che si aprono di fronte a noi nei due vangeli di oggi:


  • La contradizione fra il popolo che accoglie cantando osanna e il il popolo che urla “crocifiggilo”
  • La contradizione di Giuda che vende Gesù per 30 monete d’argento, il prezzo di riscatto di uno schiavo, eppure lo chiama maestro, signore.
  • La contradizione fra Pilato che capisce Gesù gli è stato presentato solo per invidia e cerca di liberarlo presentando alla gente una scelta impossibile, Barabba. E la folla, che inspiegabilmente, preferisce l’omicida al Dio della Vita.
  • La contradizione fra i discepoli che nell’ora della croce se la danno a gambe e le donne, che silenziose accompagnano Gesù al Golgota.
  • La contradizione fra gli astanti che nell’ultimo urlo di Gesù in croce sentono un’invocazione ad Elia, che doveva venire prima del Cristo, e il centurione che in quell’urlo riconosce il Figlio di Dio.
  • La contradizione di una sepoltura alla quale non vengono gli amici, ma un perfetto sconosciuto, Giuseppe d’Arimatea.

Quante contradizioni viviamo anche noi.
Quante volte rinneghiamo il Signore e facciamo finta di non conoscerlo.
Quante volte lo vendiamo al prezzo di uno schiavo, per poi tornare a chiamarlo Signore.
Quante volte siamo noi stessi la Gerusalemme santa e peccatrice, sede allo stesso tempo del culto e dell’indifferenza.

Che in questa settimana santa lasciamo entrare Gesù nella nostra Gerusalemme e lo seguiamo lì dove lui vuole portarci.
Buona Settimana Santa!


Thursday, 2 April 2020

pasqua: uscire a vita nuova

(inserto Ormegiovani di Aprile)


Il capitolo 11 di Giovanni ci racconta la resurrezione di Lazzaro. Per i pignoli, si tratta di “resuscitazione” e non resurrezione, “perchè poi Lazzaro è morto di nuovo”. Per chi legge la Parola, invece, sono le prove generali dell’ottavo giorno.
Mi permetto di sottolineare due frasi tanto brevi quanto spesso tralasciate.

Andiamo anche noi a morire con lui!
Viene detto a Gesù che il suo amico è malato. Lui aspetta due giorni. E il terzo giorno propone ai discepoli di andare. Questi rispondono che forse non è il momento giusto, visto che Betania è alle porte di Gerusalemme e proprio lì lo avevano appena preso sassate (Gv 10,31). Gesù non se ne cura, lui parla di Lazzaro e dice che è morto. È un dialogo fra sordi. Fra i discepoli preoccupati per la pelle di Gesù (e la propria), e Gesù che si da premura per il sonno di Lazzaro, Tommaso, chiamato Didimo, il discepolo un po’ tonto (per non usare un’altra parola) se ne esce con un double entendre che non ha pari in tutto il nuovo testamento: “Andiamo anche noi a morire con lui!”. Con chi vuole morire Tommaso? Con Lazzaro, per nascere a vita nuova, o con il Maestro, preso a sassate? Giovanni non perde tempo a spiegarcelo. Probabilmente il cammino della Pasqua per noi discepoli passa per entrambe le morti. Se accettiamo di morire con colui che ci ha chiamato, se non abbiamo paura delle sassate dei farisei (eccezionale Gesù che in 10,32 fa dell’ironia con i suoi lapidatori!), allora Lui ci chiamerà per nome. Perchè la resurrezione è nuova creazione, nuovo essere chiamati per nome. Così nel battesimo, che ci ha fatto passare per il Mar Rosso dalla vita di carne a quella del Regno, riceviamo il nome. La prima parola che Lazzaro sente nella sua nuova vita è il proprio nome: “Lazzaro, vieni fuori!”. Come Maria Magdalena nell’orto, la domenica di Pasqua, come Saulo sulla via di Damasco. La nuova vita comincia con il tuo nome.

Il morto uscì
Con queste parole strane Giovanni indica la resurrezione di Lazzaro. Fa fatica a crederci anche lui, nonostante sia testimone oculare del miracolo, e lo chiama ancora “morto”. Ma ci rivela che la resurrezione è uscita. Lo vedremo quando il Signore esce dalla tomba. Mentre scrivo queste righe, c’è un’Italia – anzi un mondo intero – che aspetta di “uscire” dalla quarantena imposta per il Corona Virus. Quanto è vero che l’uscita è la nascita a vita nuova. Quando papa Francesco parla della “Chiesa in uscita”, non sta promuovendo turismo religioso, ma sta chiamando ad un atto tanto radicale quanto sofferto come il triduo pasquale.
A rileggere questo versetto brevissimo sulla resurrezione e uscita di Lazzaro, si impone alla mente la parabola dei due gemelli. Molti l’hanno attribuita a diversi autori, ma credo la versione più verosimile sia quella di Newman che la attribuisce ai padri del deserto.


 Nel ventre di una madre c’erano due bambini. Uno chiese all’altro: “ci credi in una vita dopo il parto?” L’altro rispose: “e’ chiaro. Deve esserci qualcosa dopo il parto. Forse noi siamo qui per prepararci per quello che verrà più tardi”.
“Sciocchezze”, disse il primo. “non c’è vita dopo il parto. Che tipo di vita sarebbe quella?” Il secondo disse: “io non lo so, ma ci sarà più luce di qui. Forse noi potremo camminare con le nostre gambe e mangiare con le nostre bocche. Forse avremo altri sensi che non possiamo capire ora”.
Il primo replicò: “questo è un assurdo. Camminare è impossibile. E mangiare con la bocca!? Ridicolo! Il cordone ombelicale ci fornisce nutrizione e tutto quello di cui abbiamo bisogno. Il cordone ombelicale è molto breve. La vita dopo il parto è fuori questione”.
Il secondo insistette: “beh, io credo che ci sia qualcosa e forse diverso da quello che è qui. Forse la gente non avrà più bisogno di questo tubo fisico”. Ma Il primo contestava: “sciocchezze, e inoltre, se c’è davvero vita dopo il parto, allora, perché nessuno è mai tornato da lì? Il parto è la fine della vita e nel post-parto non c’è nient’altro che oscurità, silenzio e oblio. Il parto non ci porterà da nessuna parte”.
“Beh, io non so”, disse il secondo, “ma sicuramente troveremo la mamma e lei si prenderà cura di noi”. Il primo replicò: “Mamma, tu credi davvero a mamma? Questo è ridicolo. Se la mamma c’è, allora, dov’è ora?” Il secondo disse: “Lei è intorno a noi. Siamo circondati da lei. Noi siamo in lei. È per lei che viviamo. Senza di lei questo mondo non ci sarebbe e non potrebbe esistere”. Il primo concluse: “beh, io non posso vederla, quindi, è logico che lei non esista”. Anche il secondo concluse: “a volte, quando stiamo in silenzio, se mi concentro ad ascoltare veramente, sento la sua voce da lassù”.



Buona Pasqua, che sia una uscita, non solo dalle nostre case di mattone, ma dal buio della nostra vita a misura nostra.


Sunday, 1 March 2020

lezioni di cecità


(Inserto Ormegiovani di marzo)
Gv 9,1-41

Con la bocca benedicono / ma nel loro cuore maledicono”. Così recita il salmo 62, quando parla dei violenti. Turoldo titolava questo salmo “A pesarli sono aria”. Sembra parli di loro, quegli stessi farisei di Giovanni, capitolo 9. Professionisti dell’incartare con le loro belle parole il loro essere marci, piccoli. Insomma, per dirla con papa Francesco, mafiosi.
Il capitolo in cui Giovanni narra della guarigione dell’uomo nato cieco sembra quasi un teatrino dove nessuno sembra vedere e nessuno vuole ascoltare. Il cieco non sa chi lo ha guarito. I suoi genitori conoscono cosa è successo, ma non parlano, scaricando su di lui il fardello della verità. I farisei si fanno ripetere la storia della guarigione, come se non la avessero sentita a sufficienza, provocando il miracolato a sbottare “volete anche voi diventare suoi discepoli?”. Sembra il teatrino delle tre proverbiali scimmiette “non vedo”, “non sento” e “non parlo”.

C’è solo uno che ascolta. Dio “ascolta” le preghiere di chi gli è timorato e fa la sua volontà (v. 31). E Gesù “ascolta” che il miracolato è stato scomunicato, cacciato dalla sinagoga (v. 35).
L’ascolto, prima che essere la porta della legge di Mosè, è una delle cose che da sempre hanno caratterizzato Dio (anche perchè lui non ci chiede cose che lui stesso non sia pronto a fare per primo). Fin dai tempi del roveto ardente, Dio è quello che vede la miseria degli oppressi, ascolta il loro grido, conosce le loro sofferenze e scende per liberarli (Es 3,7-8). Non siede sull’Olimpo, su un trono imbottito di distacco ed indifferenza, ma ci cammina accanto. Ci conosce per nome.
L’ascolto è il pronao dell’alleanza, il suo passaggio obbligato. L’ascolto che viene da entrambi: Dio ascolta il povero che grida, e questi ascolta la sua promessa. Senza ascolto non c’è storia, non c’è nè Dio, nè umanità, ma solo la pagliacciata del teatrino dell’arroganza. L’ascolto è madre dell’iniziativa. Chi ascolta ha già fatto il primo passo.

La tentazione per chi si dichiara non-fariseo è di dire che i farisei sono cattivi, ma si tratta di un inganno auto-contradditorio, perchè dividere il mondo fra buoni e cattivi è già in sè farisaico. Ad essere onesti, i farisei sono poveracci, gente ridotta ad andare avanti col paraocchi. Sono ciechi. Non lo fanno per cattiveria, ma si rinchiudono in un piccolo guscio fatto di autogiustificazioni e dichiarano guerra a tutti quelli che sono fuori. Appena uno venga e provi ad aprire i loro occhi, o a sbeccare il loro guscio, subito si fanno prendere dall’isteria collettiva e lo cacciano fuori. Ma questo poco ha a che fare con la cattiveria, trattandosi soprattutto di un istinto di sopravvivenza.

È quello che vediamo tutti i giorni qui in Sudan, in quello che è il “dopo” dittatura. Ma da quando B. è caduto, c’è qualcosa di nuovo che aleggia negli uffici della burocrazia, qualcosa che ha l’odore del fiele. Lì dove la vecchia guardia ha tenuto le redini del potere per trent’anni, si sta svolgendo una snervante lotta per la sopravvivenza. I falchi del vecchio regime non vogliono certo cedere il posto alle colombe della rivoluzione, che tra l’altro sono ricche di buoni intenti, ma povere di sfacciataggine (penso a Gesù che ai suoi diceva di essere semplici come colombe, ma astuti come serpenti... una lezione spesso ignorata dai giovani della primavera araba, anche qui in Sudan). Un po’ fanno anche pena, i burocrati del vecchio regime, perchè – anche se conniventi – sono stati ridotti a servi da un sistema più grande di loro, e non si sono accorti di essere diventati irrimediabilmente pericolosi, a se stessi e agli altri. E adesso pagheranno il conto di tutto il tempo in cui sono stati al potere. Senza riuscire a capirne il perchè. Lo diceva Freire, che l’onere della coscientizzazione – ovvero la ri-umanizzazione – spetta agli oppressi, non perchè gli oppressori siano intrinsicamente cattivi, ma piuttosto irrimediabilmente incapaci.

Detta così, sembra una guerra senza prigionieri, ed in buona parte lo è. Gesù stesso non da una pacca sulla spalla ai farisei, ma chiude il discorso rincarando la dose lapidariamente “poichè dite ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”. Non ci sono nè sconti, nè tempi ri recupero.

Per riassumere: sono pochi quelli che ci vedono, perchè vedere e sentire sono arti divine. La Chiesa li chiama santi: sono quelli che hanno visto quello che i loro contemporanei non riuscivano a vedere. Un esempio fra tutti, san Daniele Comboni che nell’Africa del 1800 vide la protagonista della propria rigenerazione... Non c’è da meravigliarsi che lo abbiano preso per matto. Per dirlo con un eufemismo, dove tutti vedevano una donna da abusare, lui vedeva una madre.
Solo Dio e le persone “divine” riescono a vedere e a sentire. Gli altri recitano un copione scritto dalla scimmia antica.


Friday, 21 February 2020

versi di st. Efrem


"Non è infatti il paradiso
il motivo della creazione dell'uomo,
ma è solo Adamo
il motivo per cui fu piantato il paradiso.“




"Abbi pietà, Signore, 
dei ciechi che vedono soltanto l'oro.“




"Il fango che tu hai fatto allora [Gv 9:6], Signore, 
ci dice che sei il Figlio del nostro Vasaio.“


Saturday, 1 February 2020

Quella strana operazione


(Inserto Ormegiovani Febbraio)
Gv 6,1-15

Quando qualche anno fa mi trovavo al Cairo per lo studio dell’arabo, un mio compagno di corso, un pastore svizzero, mi raccontava di come nel suo seminario gli fosse stato insegnato di predicare senza mai usare la parola “Dio”. “Perchè – mi spiegava – alcune parole più le si usa e meno valore hanno”. Verissimo. Quante canzoni inneggiano all’amore, ma alla fine hanno sostituito l’amore come essere sconfitti con l’amore come possesso, far prigionieri.
Negli ultimi anni in cui i social hanno invaso la vita privata di noi tutti – in ogni continente –, un’altra parola ha perso significato: “condividere”. Condividere è diventato un tormentone psico-mediatico forse per ora solo superato da “mi piace”, del quale già alcuni studiosi osservano stia creando dipendenza e cambiando il nostro modo di ragionare e di comportarci.

“Condividi” così come lo troviamo sulle piattaforme social è una parola vuota. Sa di “batti un colpo, così, nel vuoto, giusto per affermare che ci sei”. Condividi quindi esisti. Piaci quindi esisti. Non importa più chi sia il ricevente della tua condivisione. Anzi, non importa più che ci sia un ricevente dall’altra parte dello smart screen. L’importante è che ti affermi. Condividi per condividere. Getta quello che hai nella pubblica piazza. E buona notte non solo alla privacy e al pudore, ma anche alla correttezza di essere sicuro di aver qualcosa da condividere – magari anche solo un pensiero, o un sorriso, ma qualcosa di valore.
Insomma, abbiamo perso i destinatari della condivisione, e anche l’oggetto. Rimaniamo solo noi, solipsistici cliccatori di “condividi” anonimi. Che triste.

Il vangelo di Giovanni, al capitolo 6, ci presenta il condividere di Gesù Cristo. Tutta un’altra storia. Lui vede la folla. Anche i discepoli l’hanno vista. Ma loro vedono nella folla un peso, un problema, mentre Gesù vede gente che ha bisogno sia del Pane della Parola, che lui ha appena dato (lui che è nato a Betlemme, la “casa del Pane”), ma anche del pane quotdiano. Come sempre, è chi ha gli occhi puntati su Dio che riesce a vedere il mondo con oggettività. Il santo è sempre inculturato, l’unico inculturato davvero.

Allora sfida Filippo, il discepolo studiato, quello che sa il greco, il cosmopolita del gruppo: “Dove possiamo comprare il pane perchè costoro abbiano da mangiare?” E Filippo con tutta la sua saccenza non sa guardare più il là del proprio naso. Si ferma ai fatti: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perchè ognuno possa riceverne un pezzo”. Interviene allora Andrea, amico della prima ora ma anche compaesano di Gesù, probabilmente con tono più mediatore se non addirittura ironico (me lo immagino parlare in dialetto, lui il pescatore di Cafarnao che parla al falegname di Nazareth): “C’è qui un ragazzo con cinque pani e due pesci... ma che cos’è questo per tanta gente?”
Gesù sorride a questi due discepoli che stanno imparando l’arte di rispondere alle domande scomode con domande stupide e dice “Fateli sedere”. E qui l’evangelista tira fuori un pennello di verde e li fa sedere sull’erba

Mi ha sempre colpito questa nota gentile, tra l’altro presente anche nei racconti di Matteo e di Marco. Mi sembra una metafora della gentilezza di Dio, che il bene lo fa sempre... bene. Non come noi che a volte “facciamo la carità” abbassando lo sguardo, storcendo il naso, o – peggio – alzando la voce. No; Dio quando dimostra il suo amore ti fa sedere sull’erba verde. Ti fa tornare nel giardino della sua presenza. Sedersi con Dio che spezza il pane per noi e con noi. Questa è la condivisione. Il resto è fariseismo che asservisce i “poveri” a recipienti del nostro perbenismo opulento e staccato.



La cultura sudanese conosce decine e decine di lingue, cucine, tradizioni, costumi. Il nostro è un Paese davvero largo. Se c’è una cosa, però, che accomuna tutti i sudanesi in modo davvero marcato è l’incrollabile e immancabile tendenza di condividere quello che si mangia. Quando passi di fronte a qualcuno che sta mangiando, non esiste altro saluto che “Faddal”, ovvero “favorisci”. È così automatico, che a volte i miei bambini a scuola mi dicono faddal anche quando il loro sandwich è finito e non rimane altro che leccarsi le dita... Ma scherzi a parte, è davvero interessante come di fronte al cibo la vita sembri fermarsi: il lavoro, le beghe, le parole vane. Ci si ferma e si mangia insieme. In silenzio. E poi si ritorna alle attività del giorno. Sembra quasi una liturgia. Noi missionari stranieri spesso ce ne stiamo fuori da questa liturgia, più in nome dell’efficienza nell’uso del tempo... ma a volte ho come l’impressione che facciamo da spettatori alla vita della gente. Spezziamo il Pane, ma non il pane. Che sia ora di condividere?

Saturday, 4 January 2020

Signore del tempo e dello spazio

Ad apparire sono i re magi, ma è la festa della Sua apparizione.


Quattro annotazioni: duel sul tempo, e due sullo spazio. E' lui a dominarli.

Tempo
- Il racconto comincia dicendo "nei giorni di Erode". Il re terreno sembra ricco di giorni, ma alla fine verrà sconfitto. Dio ha solo un giorno, l'oggi. Oggi è il giorno per fare la sua volontà. Ogni oggi. Gli altri giorni sono solo promesse vane, o ricordi sterili.
- "Andate voi per primi", dice Erode ai magi. E con questa bugia malcelata, Erode sigilla la procrastinazione ad emblema dell'indifferenza (se non dell'odio). Quante volte non abbiamo tempo per Dio, o per quel fratello o sorella verso il quale sappiamo di avere un debito di amore... Eppure l'egoismo ci ruba il presente, e quindi l'anima, ovvero la vita. E ci rende omicìdii. Chi non ha tempo nel cuore, toglie la vita. E togliere la vita a Dio equivale toglierla a tutto il mondo. Guarda Erode...

Spazio
- Vengono dalla terra dove il sole sorge, eppure seguono un'altra luce. Quante volte confondiamo le lucciole per delle stelle...
- Non tornano per la stessa strada. E come si potrebbe? L'incontro con il Dio Uomo di Betlemme ci cambia, cambia i nostri percorsi, e anche i compagni di strada. Se vai con il lupo...


Wednesday, 1 January 2020

fuori dagli alambicchi della stupidità al potere


(inserto Ormegiovani di Gennaio)

Gv 5,1-18

Gesù sale a Gerusalemme durante “una festa”. Gli uomini “fanno” tante feste, ma spesso sono tutte uguali una all’altra, e ce le dimentichiamo prima ancora di averle finite.  Sotto i cinque portici della “casa della misericorida” (Betzaetà, appunto) trova una folla innumerevole di ciechi, zoppi, infermi e paralitici. Sono i molti che la festa la attendono, in un futuro più o meno trascendente. Ad uno di loro Gesù chiede “Vuoi guarire?”
Di lui Gesù sa che è infermo da 38 anni, il tempo del popolo di Israele nei deserti del Sinai. Di lui Gesù sa che è un uomo pronto alla liberazione, pronto ad entrare nella terra promessa. Forse neppure lui, l’infermo, sa di se stesso tutto quello che Gesù conosce di lui. Del resto, il salmo 139 canta “Signore, tu mi scruti e mi conosci... dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, la tu sei, se scendo negli inferi, eccoti... per te le tenebre sono come luce”. Possiamo scappare da noi stessi, ma non da lui. Possiamo mentire al mondo e a noi stessi, e a volte siamo così bravi da convincere entrambi. Ma non è ancora nato l’uomo che possa ingannare il Creatore, che ci ha fatto e che ci ha conosciuti quando ancora non era spuntato il sole sul primo dei nostri giorni.

C’è ua differenza abissale fra come Gesù e i maestri della legge incontrano il malato. Gesù parte dalla storia di sofferenza e dall’attesa di rendenzione, mentre “i giudei” partono dalla legge. “È sabato, e non ti è lecito prendere su il tuo lettuccio”. Non vedono il miracolo, anzi, non vedono neppure l’uomo. Vedono solo il proprio calendario e le proprie regole, che loro stessi credono di obbedire, senza prima essersi mai preoccupati di capire cosa significhino. Sono persi negli alambicchi della loro dottrina, e non riescono a venirne fuori per vedere quanto più largo sia il mondo. Sono persi. E sono l’epitome della stupidità al potere.

C’è un’arroganza che sempre caratterizza la stupidità dei dittatori. I potenti stupidi e ciechi non si fanno certo intimorire (altrimenti non sarebbero stupidi), e si ostinano per la direzione che hanno già preso: Gesù deve morire. Trovare poi delle scuse è solo un esercizio di retorica: uno dice “perchè fa guarigioni di sabato”, l’altro “perchè si fa uguale a Dio”, ma alla fine al prepotente le scuse non mancano mai.

Esopo in una sua famosa storia racconta di un lupo che un giorno andò a bere l’acqua al torrente. Mentre beveva, vide un agnello che beveva come lui dal torrente, ma più a valle. “Stai sporcando la mia acqua”, si lamentò il lupo. “Ma come? Io sono in basso, e l’acqua scorre in giù”. “Beh, se non sei stato tu, sarà stato tuo figlio, che ha bevuto qui”. “Ma che figlio? Io stesso non sono che un giovane agnello di pochi mesi”. Offeso, con due balzi il lupo si avventa sull’agnello e lo prende per il collo. E l’agnello prima di morire riesce a dire “Ai prepotenti non mancano mai scuse”.

È la storia di tanti in Africa, in Medio Oriente e nel mondo intero. Non sono perseguitati “a causa” della loro religione o della loro tribù. Casomai “a pretesto”. Ma la vera causa è la stupidità, la cieca, implacabile, ostinata, arrogante stupidità di chi – senza più un cuore – è asservito all’immagine di sè, ad un sogno vago di gloria, ordine e forza. Poveretto. Poveretti i fascisti, i farisei e i fondamentalisti di ogni latitudine e tempo. Sono loro ad essere deboli, malati, pericolosi. E non sanno di esserlo. Sono loro la minaccia alla società. Sono loro a rompere l’ordine sociale, a minacciare la pace. Eppure sono al comando da sempre.

Il problema è quando anche le vittime si fanno lavare il cervello dagli arroganti, e diventano più integralisti di loro. L’infermo che ora è stato guarito non riesce neppure a concepire la stupidità dei potenti della sua Gerusalemme, e così si fa ingannare da loro e consegna loro il nome di chi lo ha guarito. Fa un autogol, ma non lo fa con malizia. Non “tradisce”, perchè neppure riesce a pensare che qualcuno possa avercela con la mano di Dio scesa in terra. Purtroppo anche lui, vittima di disprezzo per tanti anni, non sa vedere il mondo se non nella prospettiva degli arroganti.

Che le vittime adottino gli occhi e la lingua degli arroganti è una verità vecchia come il mondo. Ricordo un giorno un rifugiato siriano, in sedia a rotelle, che passando davanti la nostra chiesa qui a Khartoum ha pensato di fotografarla. Gli si è avventato contro uno dei nostri cristiani, nemmeno avesse innescato una bomba. Quando ho visto la scena ho reagito, e mi son sorpreso di come lo zelante cristiano non potesse capire quello che gli stavo dicendo. Io vedevo un uomo in sedia a rotelle, lui vedeva un musulmano arabo.

Il vero nemico è il pensiero dell’inimicizia. Che Gesù ci guarisca gli occhi perchè possiamo vedere il mondo prima delle ideologie. E che ci tiri fuori dagli alambicchi delle nostre dottrine.